Una cittadina libanese al seggio elettorale allestito a Milano - Eid
Libano in fermento a due giorni dalle elezioni legislative. Lo scrutinio di domenica è, infatti, il primo appuntamento dopo la contestazione popolare del 17 ottobre 2019 e la doppia esplosione al porto di Beirut del 4 agosto 2020. È forse la prima volta che il risultato non appare scontato al 90%, come in altre tornate elettorali. In primo luogo, perché sul voto pesa l’incognita del voto sunnita dopo la decisione – presa a fine gennaio – dell’ex premier Saad Hariri di “sospendere” le attività della sua Corrente del Futuro, adducendo la mancanza di «opportunità per il Libano alla luce dell’influenza iraniana e del crollo dello Stato». Non è chiaro chi, tra gli altri movimenti sunniti, riuscirà ad attirare quel 70% dell’elettorato sunnita rimasto “orfano” dopo la curiosa decisione.
Su come sbloccare i conti bancari, risolvere la penuria energetica e combattere l’inflazione che ha ridotto gli stipendi dei libanesi a cartastraccia, solo slogan generici
La stampa saudita ha lanciato nei giorni scorsi un duro attacco contro Hariri, definito una «carcassa politica», accusandolo di aver favorito con la sua azzardata mossa i nemici di Riad. Gli analisti credono, infatti, che un’alta percentuale di boicottaggio sunnita possa favorire la coalizione vicina a Hezbollah. Ciò vale principalmente per la seconda circoscrizione di Beirut, (11 seggi, di cui 6 sunniti), per Tripoli-Minieh (11 seggi, di cui 8 sunniti) e per Sidone (2 seggi sunniti). «Gli appelli a una doverosa e massiccia partecipazione si stanno moltiplicando in queste ore negli ambienti sunniti», confida ad 'Avvenire' lo sceicco Mohammed Nokkari, per anni braccio destro del Gran mufti libanese. «Non è nell’interesse dei sunniti, né dei libanesi in generale, cedere alla tentazione del ripiegamento ». Rimane però un altro problema, quello della moltiplicazione delle liste, comprese quelle che si richiamano al cosiddetto “Taghyir”, ossia il Cambiamento, che si sono poste come alternativa della società civile all’intera “Manzume”, l’Establishment politico, accusato di aver portato il Paese al default economico. «Questa è la grande delusione di molti libanesi, commenta ancora Nokkari. La dispersione dei voti finirà per penalizzare tutti, anche a causa di una legge elettorale zoppa e poco democratica». a legge in vigore è un misto tra il si-Lstema proporzionale, il voto di pre- ferenza e l’immancabile ripartizione equa dei 128 seggi della Camera tra le diverse comunità cristiane e musulmane. La soglia di sbarramento viene poi calcolata in base ai risultati nelle 15 “mega circoscrizioni” in cui sono state divise le 25 province del Paese, favorendo in tal modo le forze politiche meglio radicate. I circa 4 milioni di elettori sono chiamati a scegliere una delle 103 liste in gara (contro le 77 delle precedenti elezioni del 2018) con 718 candidati, tra cui 118 donne.
Un’altra incognita riguarda il voto nelle circoscrizioni a maggioranza cristiana, dove sono attese battaglie molto serrate. Nella terza circoscrizione del Nord (10 seggi, tutti cristiani) sono in lizza tre candidati maroniti, come vuole la Costituzione, alle prossime presidenziali: Gebran Bassil, leader della Corrente na- zionale libera (Cnl) nonché genero del presidente Michel Aoun, Samir Geagea e Suleiman Frangieh. Ma il braccio di ferro si gioca anche all’interno della stessa coalizione, come tra Cnl e il movimento sciita Amal di Nabih Berri, “costretti” dal comune alleato Hezbollah a mettere da parte – seppure momentaneamente – le loro divergenze e a scendere in liste comuni.
Un Paese portato al default cerca riscatto
Il Partito di Dio teme, infatti, che un sostanziale crollo nel numero dei seggi del suo principale alleato cristiano passi il testimone a una forza politica cristiana rivale. Non mancano i problemi sul versante sciita. L’84enne Berri, che occupa da trent’anni la presidenza della Camera, è diventato il simbolo di una classe politica restia al cambiamento. Sui 16 deputati che conta il suo attuale gruppo parlamentare, solo tre sono sta- ti sostituiti da nuovi candidati. Tra questi, il noto banchiere Marwan Khaireddin, confermando le accuse dei detrattori circa il saldo legame tra il “partito delle banche”, il “partito della corruzione” e quello “delle armi”. Tra i deputati riproposti, invece, figura l’ex ministro Ali Hassan Khalil, formalmente incriminato nell’inchiesta sul porto di Beirut, ma che si è rifiutato in nome dell’immunità parlamentare di presentarsi davanti al giudice.
Uno dei manifesti elettorali in vista del voto di domenica 15 maggio nelle strade del Libano - Eid
In assenza di veri e propri programmi elettorali, diventa prioritario per ogni partito battere sui temi più cari al proprio elettorato: dalla «salvaguardia dei diritti dei cristiani» alla «liberazione del Libano dall’occupazione iraniana» e dalla «protezione della resistenza» (un eufemismo per indicare la milizia di Hezbollah) al rimpatrio dei profughi siriani. Ogni scivolone commesso da una parte offre ai rivali l’occasione di suscitare quello che il sociologo arabo Ibn Khaldun chiamava “ asabiyyah”, l’orgoglioso vanto di appartenenza a un gruppo, che in Libano assume all’istante connotazioni confessionali. La settimana scorsa, ha suscitato grande scalpore tra i cristiani il video di uno sceicco del Partito di Dio che sfidava i suoi a votare le Forze libanesi di Samir Geagea «se non vi dispiace vedere le vostre figlie sulle spiagge di Jounieh e nei nightclub di Maameltein », indicando due zone notoriamente cristiane. Su come sbloccare i conti bancari, risolvere la penuria energetica e combattere l’inflazione che ha ridotto gli stipendi dei libanesi a cartastraccia, solo slogan generici. Un piccolo esempio: la cauzione di 8 milioni di lire libanesi (5.300 dollari al cambio di allora) versata dai candidati alle precedenti elezioni è stata portata a 30 milioni (1.100 mila dollari al cambio attuale).
L’attesa visita del Papa a Beirut intende lanciare un messaggio ai Grandi
Nel suo ultimo discorso, il leader di Hezbollah ha dedicato pochissimi minuti alla drastica svalutazione della moneta nazionale che ha ridotto l’82% dei libanesi al di sotto della soglia di povertà per concentrarsi sulla necessità di mantenere la milizia. «A coloro che credono di poterci disarmare dico: 'neanche per sogno!'». «Stiamo assistendo a una sorta di depressione collettiva», dice Rita Ayoub, che cura da anni un corso sulla Comunicazione nonviolenta presso l’Università Saint-Joseph (gesuita) di Beirut. «Le arringhe, gli attacchi verbali e le minacce subite da alcuni candidati indipendenti non favoriscono affatto un clima elettorale sereno». Il tutto mentre il Libano sprofonda sempre più nel baratro. «Ogni giorno vengo a sapere di nuovi conoscenti che hanno deciso di partire», aggiunge Ayoub. Unica nota positiva per lei, la massiccia partecipazione allo scrutinio, lo scorso fine settimana, dei libanesi della “diaspora”, come si suole definirli qui. «Il voto degli emigrati libanesi, dice ancora, è un segno di continuo interessamento al destino della madrepatria e dà una boccata di speranza a noi che siamo qui. La speranza di poter un giorno risuscitare insieme un Libano che vediamo morire giorno dopo giorno».
Un altro dei manifesti elettorali in vista del voto di domenica 15 maggio nelle strade del Libano - Eid
In fondo, nessuno in Libano si illude che il destino del Paese sia deciso a tavolino altrove. A Vienna, nei negoziati tra Usa e Teheran, oppure a Baghdad tra sauditi e iraniani. Solo la Santa Sede ha a cuore la “vocazione” storica del Libano quale esperienza unica di convivialità. L’attesa visita del Papa a Beirut intende in questo senso lanciare un chiaro messaggio ai Grandi sull’importanza di mantenere il Libano libero e sovrano. Sull’autostrada che porta da Beirut a Biblos, i cartelloni elettorali coprono intere facciate dei palazzi. Molti libanesi si chiedono come siano riusciti i candidati a pagare simili gigantografie alla luce dei limiti imposti dalla legge alle spese elettorali. Convincere gli indecisi con mazzette di dollari è comunque pratica corrente in Libano, tanto più ora che lo stipendio medio vale appena 50 dollari. A Tripoli, nel nord del Paese, un candidato aveva promesso di dare 150mila lire (6 dollari) a chiunque avesse partecipato al suo comizio. Non appena il pubblico si fosse accorto che il loro ospite non aveva i mezzi di onorare la sua promessa, ognuno si è portato a casa la sedia di plastica che occupava.