L’attacco con il coltello di Solingen e l’incendio della sinagoga Beth Yaacov a La Grande-Motte hanno coordinate molto diverse ma contiguità temporale e un generico richiamo nelle presunte motivazioni degli attentatori alla guerra in Medio Oriente. Bisogna partire da qui per capire quello che sta accadendo in Europa e ciò che possiamo realisticamente prevedere sul fronte della sicurezza per i prossimi mesi. Se indubbiamente inquietano due episodi eclatanti ravvicinati – uno certamente terroristico con tre vittime e otto feriti, l’altro di matrice da chiarire per fortuna senza conseguenze per le persone -, si deve avere la freddezza di analizzarli dentro il loro contesto. In Germania, vi sono stati alcuni casi di assalti tra la folla da parte di individui radicalizzati, in prevalenza immigrati musulmani raggiunti dal messaggio estremista dell’Isis via Internet. In uno scenario in cui non vi sono minacce di cellule organizzate direttamente dal gruppo fondamentalista più pericoloso in attività – costantemente monitorate dagli apparati di sicurezza e spesso smantellate prima che riescano ad agire -, rimane complicato prevenire iniziative quasi estemporanee di singoli individui, che pure riescono a produrre pesanti perdite, come al Festival della diversità venerdì sera, e forte allarme sociale.
Il primo effetto “politico” è un’impennata di diffidenza generalizzata verso gli stranieri di recente arrivo, cavalcata dall’estrema destra tedesca, Alternative für Deutschland in primo luogo, secondo la quale serve addirittura un’opera di “remigrazione”, termine soft per “deportazioni di massa”. Si tratta di una proposta già lanciata nei mesi passati che provocò una forte reazione della società civile, con manifestazioni di piazza a sostegno della democrazia e contro le derive autoritarie promosse da Afd. Tuttavia, è noto che i nazionalisti anti-Ue hanno avuto un notevole riscontro elettorale alle Europee di giugno, risultando il secondo partito con quasi il 16% dei voti. Sottovalutare i pericoli dei “lupi solitari” dell’islam radicale sarebbe certamente sbagliato, enfatizzarli al di là della reale dimensione della loro pericolosità, sarebbe un errore altrettanto grave, perché riduce le vie dell’integrazione, polarizzando la società e rendendo difficili i percorsi di integrazione sia da parte dei residenti sia da parte di chi dovrebbe fare propri i valori della convivenza pacifica.
Non si può nemmeno negare, tuttavia, che la drammatica situazione a Gaza e nell’intero vicino Oriente aumenti le tensioni e dia motivazioni distorte e alibi ai burattinai del terrore e alle loro reclute, spesso mosse dalla propaganda che fa leva su emozioni alimentate ad arte. Questo riporta alla situazione francese, dove l’antisemitismo ha ripreso forza in concomitanza con la guerra in Palestina. Si tratta di un fenomeno complesso, non limitato a un solo Paese, che vede riaffiorare pulsioni mai scomparse in una certa cultura nativa, pronte a saldarsi all’ostilità verso Israele del mondo islamico, oltre alla strumentalizzazione sempre possibile da parte di terzi interessati al caos (alcuni gesti di intolleranza sarebbero stati compiuti da misteriosi criminali prezzolati dell’Est). Senza volere sembrare cinici, va rilevato però che ci avviciniamo ai dieci mesi di conflitto sanguinoso e non vi è stata una vera escalation di violenza sul suolo europeo. Anche le manifestazioni pro-Palestina si sono ridotte di numero e virulenza, le occupazioni universitarie sono quasi scomparse, in un (triste) abituarsi o rassegnarsi alle stragi di civili.
L’esempio italiano di espulsioni mirate (e soggette a precise procedure garantiste) dei soggetti stranieri sospettati di radicalizzazione (120 persone allontanate in 18 mesi, almeno sessanta proprio a partire dal 7 ottobre) si sta dimostrando una strategia efficace per tenere sotto controllo i rischi d’assalti sporadici e di costituzione di gruppi strutturati. Il segno che la prevenzione è necessaria e anche possibile, che tenere alta la guardia costituisce una responsabilità comune della Ue e che non alimentare isterie costituisce l’altro versante del contenimento delle insidie del terrorismo a bassa intensità. Anche una de-escalation a Gaza, meglio ancora l’indispensabile tregua, aiuterebbe a togliere occasioni per sfruttare la rabbia e incanalarla nel disagio e nella frustrazione di giovani stranieri da parte dei professionisti del conflitto ideologico-religioso. Una ragione in più per l’Europa di mobilitarsi per la pace. Pur consapevoli che nemmeno uno Stato palestinese metterà d’incanto fine alle aggressioni, ai lutti e alle paure.