C’è qualcosa che inquieta nella decisione della maggioranza che governa la Polonia di predisporre una legge che preveda il carcere fino a 3 anni per chi definisce «polacchi» i lager costruiti dai nazisti sul territorio di una nazione che era allora occupata dalle truppe di Hitler. Poi sembra arrivata una frenata, ma la volontà del governo di Varsavia di «difendere il buon nome della nazione» per evitare che sia associato alla Shoah è evidente. La dura reazione del governo israeliano ha spinto il presidente Andrzej Duda ad annunciare che il testo sarà rivisto.
La preoccupazione dell’esecutivo di Benjamin Netanyahu è che questo testo impedisca una libera ricerca storica e che addirittura possa portare all’incriminazione di sopravvissuti dello sterminio nazista qualora accusassero cittadini polacchi di avere preso parte alle operazioni di morte. La replica del governo polacco non dissipa i dubbi e lascia domande inevase quasi che si stia ricercando il sigillo della legge per 'certificare' che lo sterminio del popolo ebraico fu una follia solo nazista e che i polacchi, tutti, ne furono vittime. Questa proposta legislativa sembra insomma interdire ogni franca ricerca storica come se si temesse di sporcare un’immagine costruita negli anni di 'polacchi brava gente' simile a quella che per decenni proprio noi italiani ci siamo raccontati sulle novecentesche campagne militari d’Africa, salvo poi doverci confrontare con aspetti della realtà non proprio edificanti. Nessuno, però, ha mai pensato di vietare, sotto la minaccia del carcere, l’emergere di verità scomode.
A inquietare è anche la polemica che, da qualche mese, sta coinvolgendo Lech Walesa. L’ex presidente della Repubblica, vero eroe della lotta contro il comunismo e della riconquistata libertà, è molto critico sulle attuali politiche della dirigenza di Varsavia. Più di una volta ha contestano decisioni controverse adottate dall’esecutivo di centrodestra, ultima delle quali quella che ha posto la magistratura sotto il controllo dell’esecutivo. Una scelta che ha dato il via anche a un pesante contenzioso con l’Unione Europea fino all’apertura di una procedura formale.
Il ruolo unico di Walesa nel cammino verso la libertà viene così mistificato, sminuito. Giovanni Paolo II e lui, il Papa e il Sindacalista, furono i veri artefici della fine dell’oppressione iniziata nel 1945. Protagonista degli scioperi ai cantieri navali di Danzica nel 1980 e leader di Solidarnosc, il primo sindacato libero all’interno del mondo comunista, Walesa venne arrestato e tenuto in carcere per anni dopo il golpe del generale Jaruzelski nel dicembre del 1981.
La sua vita fu più volte in pericolo e gli venne anche negato di ritirare il Premio Nobel per la pace. Ora, addirittura, qualcuno a mezza bocca lo accusa di essere stato una sorta di informatore dei servizi segreti comunisti di allora e la sua presenza nel Pantheon della Polonia democratica viene messo in dubbio. In entrambi questi casi è in atto, con diverse gradazioni, il tentativo di riscrivere la storia. Forte di un consenso interno già pronunciato e desideroso di rafforzarlo, il governo polacco fa, così, torto alla sua stessa gente e alle sue grandi tradizioni, e sembra puntare a 'riadattare' il passato alle necessità politiche del presente. E dipinge una 'Polonia antica' come regno del bene e del giusto da contrapporre ai rischi del mondo odierno con le sue complessità.
Un comportamento che ricorda quello di tempi – per fortuna – passati, quando le fotografie venivano ritoccate per fare scomparire personaggi diventati, nel frattempo, ingombranti o finiti fuori linea. La storia però non si cambia: nel bene o nel male è una. Può (e deve) venire indagata e, se necessario, riscritta ma lasciando agli storici e al loro lavoro, libero e responsabile, questo compito. Altrimenti, il rischio, è quello di ritoccare l’ennesima fotografia. Il trucco dopo un po’ viene a galla.