Quali segni di speranza emergono nell’attuale situazione del “villaggio globale”, attraversato dalla violenza di guerre senza risparmio di colpi, come in Ucraina e in Terra Santa, da cambiamenti repentini e carichi di incognite, come in Siria, da processi di crisi economica, morale, politica e sociale, da estremismi religiosi e dalla crescita di nuove influenze - come quella della Cina - in Africa e non solo in essa? E quale futuro si va profilando nell’affacciarsi di nuove possibilità e prospettive, in rapporto specialmente all’imporsi dell’intelligenza artificiale e dei suoi usi? In questa situazione così effervescente avrà ancora senso parlare di Dio e della speranza fondata sulle Sue promesse? Quale speranza affidabile potrà offrire la fede in Gesù Cristo? E quali orizzonti di senso potrà dare specialmente ai giovani, che più di altri sembrano non vedere davanti a sé un futuro affidabile? Sessant’anni fa il Concilio Vaticano II, in un testo di grande tensione profetica, aveva affermato: «Legittimamente si può pensare che il futuro della umanità sarà riposto nelle mani di coloro che saranno capaci di trasmettere alle generazioni di domani ragioni di vita e di speranza» (Gaudium et Spes 31).
Chi sarà in grado oggi di farlo? Sono probabilmente questi gli interrogativi che hanno motivato papa Francesco a indicare l’urgenza di farci tutti “pellegrini di speranza” nel Giubileo oramai imminente. È lo stesso Papa a spiegare le ragioni di questa scelta: «Dobbiamo tenere accesa la fiaccola della speranza che ci è stata donata, e fare di tutto perché ognuno riacquisti la forza e la certezza di guardare al futuro con animo aperto, cuore fiducioso e mente lungimirante. Il prossimo Giubileo potrà favorire la ricomposizione di un clima di speranza e di fiducia, come segno di una rinnovata rinascita di cui tutti sentiamo l’urgenza».
Diventa allora urgente chiedersi: in che consiste la speranza della fede che il Giubileo viene a riproporre e testimoniare? come può essere appresa e vissuta da quanti accettino di essere i “prigionieri della speranza”, di cui parlano i Profeti (cf. Zc 9,12), e dai discepoli di Colui, che è in persona la “nostra speranza” (1 Tm 1,1), come afferma l’Apostolo Paolo? Certamente, il cuore dell’uomo ha bisogno di amare e di essere amato per vivere e imparare a morire: si tratta di un bisogno incancellabile, presente in tutti. Proprio per questo, la penuria più grande di speranza che si possa vivere oggi è quella riguardante la possibilità di un amore che non risulti svenduto o effimero, come avviene nelle tante forme in cui è spesso esibito e offerto l’amore. Dove incontrare questo possibile, impossibile amore, che vinca l’ingiustizia, la solitudine, l’infedeltà e la morte e risani le ferite dell’anima? Se il rischio dei tempi di tranquillità e di relativa sicurezza è l’illusione di poter cambiare facilmente il mondo e la vita, il rischio opposto - proprio dei tempi di prova - è di vivere la paura del domani in maniera più forte della volontà e dell’impegno di plasmarlo. Accogliere la sfida della speranza vuol dire, allora, vincere questa paura per volersi veramente umani: rinunciarvi è rinunciare alla vita. Benedetto XVI all’inizio della sua Enciclica sulla speranza - intitolata Spe salvi, “salvati nella speranza”, pubblicata il 30 novembre 2007 - si riferiva alla speranza come all’urgenza decisiva cui corrispondere per vivere e dare senso alla vita: «Il presente, anche un presente faticoso, può essere vissuto ed accettato se conduce verso una meta e se di questa meta noi possiamo essere sicuri, se questa meta è così grande da giustificare la fatica del cammino» (n. 1). Solo se c’è in noi una speranza certa potremo dare senso alla vita e riusciremo ad amare al di là di ogni misura di stanchezza. Se in un’epoca di passioni ideologiche Roger Garaudy aveva definito la speranza «l’anticipazione militante dell’avvenire», con una sottolineatura - tipica di quella stagione - dello sforzo prometeico del soggetto personale e collettivo nella realizzazione del futuro sognato e atteso, in maniera alternativa il teologo della speranza Jürgen Moltmann l’aveva descritta come «l’aurora dell’atteso, nuovo giorno che colora ogni cosa della sua luce», evidenziando come vivere nella speranza significhi «tirare l’avvenire di Dio nel presente del mondo». In questo senso, egli aveva polemizzato col filosofo della speranza, Ernst Bloch, marcando la differenza fra l’“homo absconditus” del “principio speranza”, risolto nelle sole possibilità dell’umano, e il “Deus absconditus”, il Dio nascosto che viene dal futuro, indeducibile e sorprendente rispetto a ogni calcolo o misura del mondo.
La speranza cristiana, insomma, può essere concepita e proposta solo come un dono che viene dall’alto e apre all’eterno: essa non è una semplice dilatazione del desiderio, ma l’orientamento del cuore e della vita a una meta, che vale la pena di essere raggiunta e che appare raggiungibile solo come grazia, cercata e accolta a prezzo di uno sforzo serio, perseverante, onesto, capace di sostenere anche la fatica di un lungo cammino. La speranza della fede non è qualcosa che possiamo creare e gestire con le nostre sole forze, quanto piuttosto Qualcuno che viene a noi, trascendente e sovrano, libero e liberante per noi: il Figlio venuto nella carne, Cristo Gesù. In Lui l’Eterno si è offerto come il Dio che ha tempo per l’uomo, il Dio che viene a farci dono della speranza che non delude. Come apprendere a sperare così? È stato ancora Benedetto XVI a rispondere a questa domanda, indicando tre vie: la preghiera; la disponibilità a pagare un prezzo d’amore, soprattutto al servizio di chi soffre; e l’obbedienza al giudizio di Dio, misura di verità e di giustizia per ogni scelta e sorgente di senso e di bellezza per chiunque l’accolga. Il Giubileo viene a ricordarci che questa è la speranza di cui tutti abbiamo bisogno per vivere e costruire il domani: conoscere Cristo, riceverlo nella grazia della fede e dei sacramenti, adorarlo nel più profondo del cuore, seguirlo nella carità operosa verso il prossimo, specialmente il più bisognoso. Come scriveva il gesuita Alfred Delp, morto vittima della barbarie nazista: «Il pane è importante, la libertà è più importante, ma la cosa più importante di tutte è la fedeltà mai tradita e l’adorazione vera». Solo l’adoratore di Dio riceverà la forza di essere fedele fino alla fine, libero della libertà più grande e capace di sperare e operare per una giustizia che non deluda. È per questo che il Giubileo che sta per iniziare o sarà una grande “sinfonia” di preghiera, come ha detto Francesco, o non potrà dare luce e forza di speranza al cuore e alla vita dei pellegrini, incamminati nella complessità della storia verso la bellezza che non deluderà mai.