Rieletto per il quarto mandato presidenziale con quasi il 76% dei voti, Vladimir Putin continua a essere un rebus per l’Occidente, che rimugina sul suo successo (non c’era Navalnyj, i media sono sotto controllo, i brogli, la pressione del sistema per influenzare il voto) senza riuscire ad ammettere che 'Vova' gode di reale popolarità nel suo Paese e vincerebbe le presidenziali anche se si trovasse di fronte avversari veri e non le mascherine di questa tornata.
E questo avviene perché la Russia stessa resta un enigma per l’Occidente. La Russia che nel 1998 dichiarò il default perché non poteva onorare gli impegni finanziari con gli altri Paesi e che nel 2017 ha saldato tutti i debiti, quelli dell’Urss compresi. Che nel 2015, sotto la pressione della crisi dell’Ucraina, delle sanzioni e del crollo del prezzo del petrolio, era considerata alla frutta e che da allora è diventata una potenza in Medio Oriente.
E così via. Al netto di questa impotenza culturale dell’Occidente, bisogna analizzare il trionfo putiniano alla maniera di Manzoni, «vergin di servo encomio e di codardo oltraggio», perché è più che possibile che quella che si va a inaugurare sia la più complicata tra le sue molte presidenze. Oggi la Russia è orgogliosa, compatta, forte, temuta, influente nelle questioni che più preoccupano la comunità internazionale.
È diventata, cioè, la nazione che Putin aveva promesso ai russi nel momento in cui aveva fatto ingresso sulla scena della grande politica. Ma è anche isolata, sotto certi aspetti assediata. Le due cose vanno insieme. La Russia è uscita dall’angolo, ma era impensabile che l’Occidente non reagisse alle spallate con cui un interlocutore di tale peso andava riconquistando il proprio posto a tavola. Basta vedere ciò che succede con il 'caso Skripal', che ha portato a un embrione di super-Nato, con Donald Trump e Theresa May impegnati a far rivivere lo stigma da 'impero del male' che Ronald Reagan e Margaret Thatcher aveva appiccicato alla declinante Unione Sovietica, e Francia e Germania pronti a unirsi e a portare in dote il loro progetto di esercito europeo. E poi c’è l’impegno in Medio Oriente, la gestione della crisi in Ucraina, il conflitto strisciante sulle risorse energetiche con gli Usa dello shale oil, la resistenza alle sanzioni, il confronto con quella parte di Europa che a Est preme per una pressione politica e militare più decisa sui confini russi. Un impegno più che gravoso per un solo Paese, anche se grande e grosso come la Russia.
E che si prospetta di lungo termine, perché gli Usa, il Regno Unito e l’Unione Europea non hanno intenzione di mollare e, più in generale, l’Occidente non ha mai rinunciato all’idea di sbarazzarsi di quello che è, ormai, l’unico vero ostacolo in Eurasia, l’unica solida barriera tra l’Atlantico e la Cina, potenza temuta ma inattaccabile e comunque ben disposta a investire nelle nostre economie il proprio surplus commerciale. Quindi Putin comincia il quarto mandato presidenziale sapendo che dal Cremlino dovrà gestire una guerra di logoramento per cui la Russia è molto meno attrezzata dei suoi avversari e che è studiata appunto per esaltare i problemi di cui già soffre e rendere inutili i risultati che ha raggiunto.
Sanzioni, blocchi commerciali, embarghi finanziari sono come mine piazzate nei punti critici del sistema russo come la corruzione, le inefficienze del sistema economico, la fuga dei capitali e quella dei cervelli. Putin che cosa potrà fare? Certo non lanciare quei missili atomici imprendibili di cui si è recentemente vantato. Noi sappiamo che la tensione con la Russia, così spesso strumentalmente accesa, rende il mondo, e in particolare l’Europa, più inquieto e meno sicuro. Ma di tutto questo importa qualcosa a Donald Trump? Per reggere la sfida, dunque, Putin dovrà metter mano proprio a ciò che ha lasciato indietro, mentre lavorava per ricompattare e rafforzare il Paese.
Una modernizzazione a tappe forzate che metterà alla prova non solo lui, ma la classe dirigente che con lui ha governato, ottenendo anche grandi risultati, in tutti questi anni. E questo introduce la seconda grande sfida dei prossimi sei anni di presidenza. Alla fine del mandato Putin avrà 71 anni e dovrà decidere, per sé e per i colleghi in tanta parte usciti dalle forze di sicurezza sovietiche, che cosa fare da grande. Non uscirà di scena, questo è certo. Ma un ruolo da padre nobile, costruito in questi anni insieme con l’accorta selezione di una nuova classe dirigente, avrebbe un senso e aprirebbe a prospettive nuove. Il prolungamento del potere personale, e con esso della preminenza della 'vecchia' generazione politica, ne avrebbe un altro, di certo più conservativo. Non resta che attendere. E smettere di rimuginare.