Vladimir Putin, rieletto presidente della Russia per il quarto mandato (Ansa)
Con in tasca il quarto mandato e un consenso che va ben oltre il 75% Vladimir Putin vince e quasi stravince, non fosse per quel 63% di affluenza alle urne, ben lungi dalla formula del 70-70 che gli avrebbe assicurato una sorta di investitura morale da parte del popolo russo. Ma scontata era la vittoria e altrettanto evidente che la pattuglia di candidati in lizza, compreso quel Navalny non ammesso alla contesa perché reputato il vero temibile avversario del regime, non avrebbe mai neanche lontanamente potuto inficiare la vittoria piena del nuovo zar.
Putin vince dunque, e la sua vittoria poggia su almeno quattro pilastri: 1) il ritrovato orgoglio della superpotenza russa, risorta dopo gli anni bui di Gorbaciov e Eltsin, dove il tracollo dell’Unione Sovietica e la svendita della inestimabili risorse naturale era finita nelle mani di una pattuglia di speculatori e oligarchi di dubbia provenienza, brutalmente allontanati, quando non eliminati prima giuridicamente poi anche fisicamente dal nuovo uomo forte del Cremlino. 2) la conquista di un tenore di vita mediamente accettabile nelle principali città dello sconfinato impero dagli undici fusi orari, con gli stipendi regolarmente pagati, i servizi passabilmente funzionanti, la possibilità concreta che si sviluppi una middle class che la Russia dei soviet non aveva nemmeno potuto concepire. 3) il sodalizio profondo fra fede e nazionalismo: con la medesima astuta lungimiranza che fu di Stalin nel momento più tragico dell’invasione nazista, Putin ha favorito in ogni modo l’osmosi fra la il Patriarcato e il Cremlino, fra la fede e il comune senso di appartenenza a quella Madre Russia che mai si era dissolta nel cuore profondo della gente e che ha trovato nell’annessione della Crimea (di cui non a caso ricorrevano i quattro anni nella medesima data del 18 marzo, giorno delle elezioni e del vittorioso referendum che sancì l’Anschluss incruento del 2014) e nel ritrovato ruolo di arbitro del ribollente calderone mediorientale i capisaldi di una sorta di missione russa nel mondo. 4) lo sperimentato senso di accerchiamento, uno dei cavalli di battaglia del consenso dapprima sovietico, poi della Nuova Russia: l’Occidente visto come un nemico che tenta in ogni modo di strangolare ai confini la Federazione Russa mediante alleanze e avamposti militari. Una macchina di solidarietà e consenso che ha sicuramente pesato nelle percentuali di voto e a cui ha sicuramente dato manforte la decisione britannica di espellere i diplomatici russi (con le equipollenti misure di rappresaglia adottate due giorni dopo da Mosca) a seguito dell’affaire Skripal. Un “grazie” di cuore a Theresa May, come ha commentato il portavoce della campagna elettorale di Putin Andreij Kondrashov.
Ma c’è un quinto pilastro, meno visibile e documentabile, eppure probabilmente così portante che senza di esso il trionfo di Putin sarebbe stato molto meno significativo. Stiamo parlando di quella mescolanza fra broglio elettorale e voto coatto, fra la scarpa leggendaria del comandante Lauro (premi, esenzioni, lotterie, ferie, luce e gas pagati tirando a sorte fra chi andava al seggio) e la pioggia di schede già compilate fatte cadere nelle urne (doverosamente trasparenti), al riparo da telecamere e occhi indiscreti, ma non abbastanza da non farsi notare dalle centinaia di osservatori dell’Ocse e di altri istituti indipendenti.
La straripante vittoria di Putin darà verosimilmente al Paese un governo nuovo, con un gabinetto ministeriale in larga misura ritoccato, in grado di reggere il consenso per i prossimi sei anni e – questa l’intenzione di Putin – di fare da ossatura alla classe dirigente per quel “dopo-Putin” che comincerà fatalmente nel 2024. A meno che – la tentazione è forte e il satrapo turco Recep Tayyp Erdogan, come del resto anche il cinese Xi Jinping, insegnano – lo zar Putin non ritocchi oltre al governo anche la Costituzione, garantendosi un mandato a vita.
Chiusa la Piazza Rossa, grande festa nella Piazza del Maneggio, con un presidente dal viso gonfio e provato, ma obbligato a celebrarsi e a celebrare un mandato plebiscitario che lo avvicina a Stalin e che ha già superato la permanenza al Cremlino di Breznev, i più longevi fra i long-runner sovietici.
«Davanti a noi – dice a caldo - ci aspettano sfide enormi, dobbiamo risolvere i problemi della nazione, serve una svolta. Questo risultato significa che è stato approvato quello che abbiamo fatto in condizioni difficili in questi anni ma anche quello che faremo, ciò che abbiamo proposto: mi auguro che le forze politiche si sforzino di pensare al bene del Paese prima che al loro tornaconto». Un copione quasi perfetto. In un Paese che non sa pensarsi diverso da com’è, ma che di fatto è molto diverso da quello che ricordiamo: non più i soviet e nemmeno il politburo, oggi Putin è semplicemente la Russia. Per questo ha vinto senza fatica.