A Idlib la gran parte delle donne indossa il "kherem", come in Siria viene chiamato il velo integrale - Reuters
«Non puoi andare in girò tanto scoperta, siamo in un Paese islamico. Le nostre sorelle non devono vederti così svestita». Niente miliziani sorridenti né il consueto “benvenuta”. Ad accogliere le non residenti che – intabarrate in piumino, pantaloni e velo sulla testa – si avventurano a Idlib sono gli insulti e li sguardi torvi di uomini infuriati. Non si tratta di funzionari del Governo di salvezza siriano attraverso cui Hayat Tahrir al-Sham (Hts) amministra la provincia del nord-ovest del Paese dal 2017. Bensì di “zelanti”. Probabilmente stranieri. Dal 2012, nel caos della guerra civile, questo fazzoletto di 6mila chilometri quadrati di terra rossa e ulivi – poco più di un quarto della superficie della Lombardia – è diventato la roccaforte dell’opposizione jihadista. Era stato l’allora capo del Daesh, Abu Nakr al-Baghdadi, ad affidarne la conquista al luogotenente siriano, Ahmed al-Sharaa alias Abu Mohammed al-Jolani. Tornato in patria, però, quest’ultimo e il “suo” fronte al-Nusra avevano rotto con il califfo e si erano affiliati ad al-Qaeda. Salvo, poi, staccarsi anche dalla rete del terrore e creare, nel 2017, Hts.
Nel frattempo, al conflitto con i militari di Bashar al-Assad, si erano aggiunti gli scontri, altrettanto feroci, tra le fazioni islamiste con il supporto di combattenti giunti da Cecenia, Turchia, Turkmenista, Uzbekistan e, perfino, Europa. Il gruppo di Jolani le ha cooptate o sconfitte una dopo l’altra, epurando dalle proprie file gli elementi più radicali. È nato, così, il “micro-Stato” – islamico ovviamente per quanto più simile alla Gaza di Hamas pre-7 ottobre che alla Raqqa di Baghdadi – di Idlib, zona franca dalla dittatura di Damasco. Lo svincolo di Sarakeb, 50 chilometri a sud di Aleppo, segnava la frontiera – rigorosamente blindata – tra le due entità. Ora il confine è sparito. Le trincee scavate ai bordi della strada e le postazioni dei cecchini, invece, sono ancora là anche se deserte.
Non è un cartello o un check-point a segnare l’entrata nel territorio guidato, fino all’8 dicembre, del Governo di salvezza siriano, ora al comando dell’intera nazione. Bensì le bandiere rosso-fiammante che sventolano su basi militari e sylos. Se ne contano cinque in una manciata di chilometri contro una sola con i colori della “nuova Siria”. D’un tratto i telefoni si connettono agli operatori di Ankara e nei chioschi del caffè e alle stazioni di servizio si paga solo in valuta turca. «La lira siriana è troppo instabile», dice Majid Assual, 37 anni. Alle spalle della sua pompa di benzina spicca il drappo rosso. «È una guarnigione di soldati di Ankara. Sono arrivati nel 2018. Non ci hanno creato problemi – sottolinea -. Quando il governo si starà stabilizzato se ne andranno e riprenderemo ad accettare moneta locale». Nel frattempo, però, Idlib sembra un’enclave turca a tutti gli effetti nonostante le sonore smentite di Jolani e dei vertici di Hts. Appena si scorgono le rive del fiume al-Adsi, su cui è adagiata la cittadina di Jaser al-Shoghur, scatta il “suggerimento” di coprire le teste femminili con una sciarpa. La sharia – per quanto applicata in non modo rigido – è legge d’ora in avanti.
«Non ci faccia troppo caso», dice la dottoressa, avvolta in un lungo cappotto grigio come il hijab, che preferisce non rivelare il nome. È tra le poche a camminare per la centrale piazza dell’Orologio di Idlib – capoluogo della provincia omonima – senza il “khemar”, come chiamano in Siria il velo integrale, che lascia scoperti solo gli occhi. «Da queste parti la gente si vestiva così anche prima di Hts. Facciamo una buona vita: abbiamo elettricità, acqua, sicurezza”. “Very, very, very happy”, risponde, passando dall’arabo all’inglese, alla domanda se la gente sia felice. Lo stesso afferma il 16enne Zhalid. E i due Mohammad, entrambi 22enni, proprietari di un piccolo emporio e accaniti bevitori di mate, come molti siriani che hanno preso l’abitudine dai tanti parenti emigrati in Argentina.
Gli abitanti sottolineano l’efficienza dei servizi essenziali, l’assenza di corruzione e di nepotismo, piaghe croniche nella Siria degli Assad. Nonché il basso profilo tenuto da Jolani che qui tutti, senza eccezioni, chiamano al-Sharaa, il nome vero, che il leader ha adottato di nuovo dall’offensiva, in segno di discontinuità con il passato jihadista. «Vede qualche foto appesa? La gigantografia di Assad era dappertutto», ribadisce Ala, 26 anni, infagottata nel khemar. «Il problema principale erano i bombardamenti di Assad – le fa eco Yumna, 24 anni, anche lei completamente velata -. Erano continui. Gli ultimi sono stati tre giorni prima del crollo del regime». In effetti, per sette anni, Hts ha mostrato una discreta capacità di gestione, affidata a undici ministri civili. Modello che ora cerca di replicare su scala nazionale. Non a caso, dopo la nomina del governatore Mohammad al-Bashir come premier, ieri, agli Esteri è stato designato Asaad Hassan al Shibani, ex capo del dipartimento politico. Lo scarto tra l’amministrazione di un’area marginale e un Paese cruciale nelle dinamiche globali e in macerie è, però, enorme.
A Idlib, il punto di forza di Hts è stata la creazione di un capillare sistema di imposte su beni, attività e, soprattutto, la dogana con la Turchia che ha garantito un flusso di denaro costante. Investito, in gran parte, nella costituzione di un esercito professionale, formato da 10mila truppe e altrettanti riservisti. E nella fornitura di servizi di base. Almeno nelle città. Nelle decine di tendopoli, dove si ammassano almeno due dei sette milioni di profughi interni, manca tutto. «È duro, siamo qui in quattrocento e guardi in che condizioni viviamo», racconta Ali, mentre indica le casupole di compensato adagiate sullo sterrato. È partito da Hama nel 2011 e sfollato quattro volte prima di arrivare al-Shohadaa, il campo dedicato, come dice il nome, a quanti sono morti per la libertà. «Vorrei tornare ma non ho più una casa. E chissà se potrà mai ricostruirla».
Altra scelta chiave, è stato il graduale allentamento dei divieti più radicali, su musica, fumo, alcol e abbigliamento, e lo scioglimento della polizia morale. In questo modo, il Governo di salvezza siriano ha cercato di conquistare il sostegno della popolazione evitando l’esplosione di un fronte interno. Con l’opposizione – sia delle frange fondamentalista sia di quelle laiche –, però, ha impiegato il pugno di ferro. Ci sono state denunce per torture, abusi e arresti di dissidenti. Quando si sfiora la questione, la gente si irrigidisce. «Qui è tutto perfetto – si limita a dire Nadeen -. Ora non ho tempo, devo andare».