Il Cremlino (Ansa)
Inga ha 21 anni, lavora come commessa al Gum, il grande magazzino che si affaccia sulla Piazza Rossa. L’orario di servizio non è dei più generosi: dalle 9 del mattino alle 7 di sera, ma dobbiamo aggiungerci il tragitto da casa, un’ora e mezza al mattino, qualcosa di più la sera. «Siamo un grande Paese», dice. Domenica Inga andrà a votare. Per chi, non lo rivela, ma nei suoi occhi balena un orgoglio tranquillo. Niente a che vedere con lo spirito ribelle e anarcoide che da secoli percorre come linfa segreta i sotterranei dell’anima russa. «Voterò per il presidente – ammette invece Pavlina, che sta pulendo la vetrina di Benetton – perché non ci sono altri candidati credibili». Navalny lo sarebbe stato? «Il blogger? Non credo», si limita a dire. Tutti sanno chi è Navalny. E in molti ascoltano affascinati questo populista senza mezzi e senza partito, capace tuttavia di colpi di scena ben studiati – come l’arresto e il successivo rilascio nella rinomatissima Tverskaja uliza, a due passi dal tristemente famoso Hotel Lux – e ora escluso dalla competizione elettorale. Quelli come Inga e Pavlina sanno poco o nulla della Russia sovietica, incardinata com’è nella memoria silenziosa dei loro genitori, perché sono nati nella Belle Époque putiniana, una normalità tranquilla, con i servizi che funzionano, gli stipendi regolarmente pagati, il prestigio internazionale riguadagnato con astuzia e spregiudicatezza.
Per questo Navalny incuriosisce ma non sfonda con le sue geremiadi contro la corruzione diffusa. Moskvà slesàm nie vèrit, Mosca non crede alle lacrime, recita un proverbio russo risalente a Ivan il Terribile, che negli anni Ottanta divenne anche il titolo di un film giustamente famoso. E se c’è una cosa che i moscoviti sanno fare e bene è proprio evitare di lamentarsi. Chi invece Navalny lo teme è proprio il Cremlino. Le luci nel cupo edificio della Gosudarstvennaja Duma sono tutte spente. Non c’è un’anima nella Camera bassa e del resto due terzi dei duecentoventicinque deputati sono fuori città, sguinzagliati da Vladimir Putin nei rispettivi collegi elettorali con una precisa missione: far votare gli scettici e gli apatici, portare alle urne i riottosi e gli indolenti.
Perché se scontato è l’esito di questa tornata presidenziale di marzo, molto meno lo è l’affluenza e il consenso che il primo inquilino del Cremlino si ripromette di ottenere. A terrorizzare gli strateghi della campagna presidenziale è stato un operaio trentaduenne di nome Semyon Shavenzov, che candidamente ha detto in un’intervista televisiva: «No, non andrò a votare e la campagna elettorale non mi interessa. Putin vincerà ancora. Perché dovrei preoccuparmi di dargli il mio voto?». Da qui l’urgenza di un vaccino anti-apatia. La formula si chiama 70-70: solo con il settanta per cento dei voti e della partecipazione popolare Putin si guadagnerà il diritto morale di diventare il leader russo più longevo dai tempi di Stalin. Per raggiungere questo obbiettivo quasi niente è stato lasciato al caso.
A cominciare dalla data, il 18 marzo: la stessa in cui nel 2014 venne firmato il trattato di adesione della Crimea alla Russia (e proprio in Crimea, ad annunciare l’imminente conclusione dei lavori del grande ponte che unirà la Russia alla penisola del Mar Nero si è conclusa la campagna elettorale di Putin), per finire con la chiamata alle armi delle stelle della musica, da quella seria (con Valerij Gergiev, dominus del Teatro Mariinskij di San Pietroburgo e amico personale di Putin) a quella di consumo, con le popstar Grigorij Leps e Dima Bilan, fino al re dei rapper russi Timati. «Prokofiev e Shostakovich – dice il columnist del Moscow TimesArtemy Troitskij – sono stati la colonna sonora degli anni di Stalin, il rock, un rock eroico e brutale, ha fatto la sua comparsa con Gorbacev e Eltsin (nel 1996 la sua campagna elettorale fu scandita dalla canzone “Vota o perderai”), ora però siamo ritornati a una musica più formale, diciamo pure più adatta al culto della personalità ». Guardando “Putevodnaya zvezda” (Stella guida), inno collettivo dedicato – senza mai nominarlo – a Putin, c’è da crederci: è un banalissimo clip technocountry che allinea taxisti, militari, famiglie, anziani, giovanissimi e qualche stellina del pop in un raggelante palcoscenico virtuale; ma le parole («su milioni di stelle, una soltanto è quella vera: la stella che ci guida!») sono fin troppo eloquenti. «Il gradimento però è bassissimo – continua Troitskij –: i “dislike” superano i consensi». Ma il giudizio dei social non rende giustizia al consenso silenzioso che Putin si è aggiudicato in un quindicennio di potere. La stessa Crimea – annessa quattro anni fa con un miracoloso quanto perfetto colpo di mano senza neanche una goccia di sangue – offre la misura del consenso profondo nei confronti di Vladimir Putin. Un sondaggio condotto dal Levada-Tsentr (un istituto di sondaggi indipendente che pubblica ogni anno il seguitissimo “Russian Public opinion”) rivela che tuttora il 70% dei russi ritiene che l’annessione della Crimea sia stata un bene per il Paese. Certo, il consenso, che all’epoca sfiorava l’85%, è calato, ma si tratta comunque di percentuali molto elevate: il famoso 70%, anche qui. Per qui, come in quasi tutte le caselle del risiko putiniano, vale quel non detto che attraversa l’immaginario popolare, con il discreto appoggio del patriarcato: «La Russia contro tutto il mondo». E quale miglior colpo di teatro del torbido affaire Skripal? Almeno un paio di punti in più per Putin, si stima: 70% assicurato.
C’è chi non si fa incantare, come Yuri, che studia all’università: «Money, money, money, come dite voi in Occidente. Questa è diventata la Russia: potere e denaro, nient’altro». Sono i temichiave di Navalny, che rimbalzano nelle parole di moltissimi giovani. La Russia muscolare e orgogliosa di Putin a loro non basta. Saperlo ancora in carica per i prossimi sei anni li angoscia: «Sarò già vecchio quando si leverà di torno…». Incordonati di luminarie come un gigantesco presepe, i Grandi Magazzini Gum scintillano nel tersissimo cielo notturno. Un lunapark dal vago sapore barbarico quasi un’immensa quinta teatrale. Dietro cui si stagliano molte ombre, ancora tutte da indagare.