
La Cattedrale di San Basilio a Mosca (a sinistra), sede del patriarcato ortodosso - .
Ha una sola colpa padre John Koval: aver invocato «la pace» nella preghiera per la “Santa Russia” anziché «la vittoria». Cappellano nel tempio di Sant’Andrea a Lublino, quartiere sud-orientale del distretto di Mosca, è stato prima trasferito dal suo vescovo, poi deferito alla commissione disciplinare, infine espulso dal clero. A firmare la cacciata il patriarca di Mosca, Kirill. Perché padre Koval era un prete della Chiesa ortodossa russa. Eretico, stando al patriarcato di Mosca. Come tutti quei «preti pacifisti», secondo la loro stessa ammissione, che sono stati puniti dai vertici della più grande confessione ortodossa del mondo per essersi opposti alla guerra in Ucraina, dall’altare o nei loro interventi pubblici, e per aver criticato anche Kirill che ha benedetto e continua a sostenere l’invasione voluta da Putin. Presbiteri allontanati dalle parrocchie, sotto processo canonico, privati di ogni sostegno economico, messi al confino ecclesiale e sociale. Almeno quaranta quelli radiati nell’ultimo periodo.
«Considero inaccettabile un conflitto fratricida tra cristiani», fa sapere padre Vadim Perminov, ex rettore della chiesa della Natività di Giovanni Battista a Kujbysev, città della Siberia meridionale. «A seguito di una denuncia per non aver letto la preghiera della vittoria – dice – sono stato esiliato in una parrocchia rurale e poi bandito dal ministero». Preti dissidenti che hanno il coraggio di raccontare le loro storie su Internet e che ora lanciano l’appello a una tregua di Natale «fra Russia e Ucraina» che faccia «tacere le armi almeno dal 25 dicembre al 7 gennaio». Sono le due date della Natività per il calendario gregoriano e giuliano: il primo che segue l’Occidente e che anche Kiev ha adottato dal 2023, sia da parte delle autorità civili sia dalla maggioranza delle comunità cristiane (ad eccezione della Chiesa ortodossa ucraina che ha le sue radici nel patriarcato di Mosca); il secondo è quello che segna la vita pubblica e religiosa in Russia.
Nella lettera aperta, scritta in quattro lingue, i sacerdoti “ribelli” parlano di «più di dieci anni» di «spargimento di sangue» fra le due nazioni, richiamando gli scontri in Donbass iniziati nel 2014. Riferiscono di morte, distruzione, ma anche di «odio e dolore reciproci che si moltiplicano». E a pochi giorni dalla festa chiedono «a tutte le parti coinvolte» e «a tutti coloro che hanno l’opportunità di farlo» di sancire «un cessate il fuoco di due settimane» durante le quali «scambiare i prigionieri, restituire i corpi degli uccisi, liberare i prigionieri, trovare quelle formule di pace che permettano di continuare la sospensione dopo il 7 gennaio 2025». In 160 hanno già firmato online il manifesto. Ma, avverte uno dei promotori, «non c’è alcun vescovo, ma un pugno di sacerdoti e pii laici di diverse parti del mondo». Quindi aggiunge: «I politici sono pronti a sacrificare la vita delle persone per il potere. I vertici della Chiesa ortodossa russa condividono questa strategia. E giustificano la guerra chiamandola “santa”. Nelle comunità si ascolti la vera voce di Cristo, non la falsa e vergognosa preghiera per la Santa Rus’».