Vedeva un linguaggio che aveva perso contatto con le cose concrete e vive e, quindi, con l’anima del popolo e delle persone - Ansa
I poeti sono i custodi delle parole – delle loro parole, delle nostre parole di oggi, delle parole di domani. Per questo somigliano molto ai profeti biblici, sentinelle – shomerim – di una parola diversa, che custodiscono affinché le nostre parole non diventino tutte vanitas, soffio, vento, fumo, chiacchiere. Non capiamo la critica radicale di Pier Paolo Pasolini al capitalismo e al consumo senza partire dalla sua riflessione sulla lingua. Lui la vedeva ormai asservita al Potere del consumo, trasformata in un linguaggio che aveva perso contatto con le cose concrete e vive e, quindi, con l’anima del popolo e delle persone. Il destino della lingua gli svelava quello della cultura italiana – e se avesse potuto guardare il mondo un po’ più a lungo vi avrebbe letto anche il destino dell’Occidente, perché si trattava e si tratta dello stesso declino. Si allontanavano entrambe, Italia e lingua, da qualcosa di povero, duro, severo ma vero, da un mondo «puramente umano, accoratamente umano» ( Le ceneri di Gramsci, p. 45), e si avvicinavano a un nuovo mondo meno povero, duro, severo ma che diventavano ogni giorno meno vero. Il discorso di Pasolini sulla lingua è dentro la sua ricerca vitale di un fondamento non-finto, di un’origine, di una pietra angolare dell’esistenza che la trattenesse dallo sprofondare nel nulla.
Mio nonno Domenico, contadino e spaccapietre nella cava di travertino, quando parlava nel suo dialetto ascolano ci incantava tutti con le parole della sua lingua madre. Con quel lessico arcaico faceva parlare le sue emozioni più profonde, chiamava per nome la vita sua e quella degli altri, viveva tra le cose e sapeva come nominarle. Gli rispondevano il dolore, l’amore, la pietà, Dio, i dèmoni, e lui li capiva; e con essi imbastiva un dialogo intenso e vero, ogni giorno – la prima preghiera, e l’ultima, si recitano bene solo in dialetto. Ma non appena doveva parlare in italiano, la sua lingua si immiseriva, diventava insicuro e impacciato, si vergognava, era meno bello, perdeva dignità. Col passare del tempo il ricordo vivo di questa forma di violenza mi appare sempre più ingiusta e sbagliata, la sua memoria mi fa soffrire. E finalmente capisco Pasolini: «Quando saranno morti tutti i contadini e tutti gli artigiani... allora la nostra storia sarà fi- nita» (dal film La rabbia, 1963). E capisco, forse, anche la sua critica al capitalismo: «L’italiano diventa la lingua delle aziende, del mercato» (Interviste corsare, p. 216) – chissà cosa direbbe del finto inglese che è subentrato a quell’italiano? Capisco la sua lode per il lavoro artigiano, che è l’opposto della nostalgia: è un urlo per salvare le cose e la loro verità, perché togliendo le mani umane dalle cose queste vengono manipolate da una ideologia senza carne e sangue. L’artigiano e il dialetto non sono in Pasolini età dell’oro perduta e da rimpiangere, ma terra promessa ancora da raggiungere. La tv diventa il primo agente della 'strumentalizzazione' della lingua (Empirismo eretico, p. 19), perché «è attraverso lo spirito della televisione che si manifesta in concreto lo spirito del nuovo potere» (Scritti corsari, p. 24).
La critica che Pasolini fa del capitalismo (e quindi della modernità) non è meno grande e profonda delle grandissime critiche di Walter Benjamin, di Pavel Florenskij, di Ernesto de Martino o di Gramsci e Marx. Perché Pasolini capisce che il capitalismo si apre e si la- scia decifrare se lo leggiamo come fatto antropologico e teologico e non solo come economia. In particolare, Pasolini intuisce che la svolta decisiva della cultura capitalista era avvenuta con l’arrivo del consumo di massa. Fino a quando il capitalismo era rimasto centrato sull’impresa e sul lavoro, lo spirito italiano, cattolico, comunitario e mediterraneo non ne era rimasto incantato e catturato. Perché sotto le Alpi il lavoro è sempre stato soprattutto fatica, travaglio, non vocazione (beruf) né tantomeno benedizione ed elezione divina. Si lavorava per destino, perché si doveva lavorare, per mangiare, per far vivere meglio i figli, e se si poteva campare senza lavorare tanto meglio. Il cambiamento epocale è avvenuto nella seconda metà del Novecento, quando l’asse del capitalismo si spostò dalla produzione al consumo, un cambiamento che ha conquistato velocemente e totalmente l’Italia (e i Paesi cattolici).
I critici scrivono libri e fanno conferenze, si illudono di cambiare la realtà, mentre i sacerdoti dell’economia consumistica celebrano liturgie in tutti i momenti di tutti i giorni
Per una civiltà cattolica centrata sulla 'cultura della vergogna' (non sulla protestante 'cultura della colpa'), sull’ostentazione delle cose, su una ricchezza che vale solo se gli altri la possono vedere e invidiare, il capitalismo della fatica e della fabbrica era poco attraente: ma il capitalismo delle merci e dei consumi divenne una tentazione irresistibile. Ha così comprato subito corpi e anime molto più in profondità di quanto non avessero fatto le grandi ideologie fasciste, cattolico democratiche o comuniste, che «si limitavano a ottenere la loro adesione a parole» (Scritti corsari, p. 22). Sta qui la 'svolta antropologica' del consumismo, che è anche svolta teologica. Molto del genio profetico di Pasolini sta nella comprensione di questa natura religiosa del capitalismo, nel suo «odio teologico contro il consumismo italiano» ( Lettere luterane, p. 195). I consumatori sono devoti «adoratori di feticci» (Ivi, p. 34), in un nuovo Impero che ha finalmente riunito popolo e borghesia: «Le due storie si sono unite: ed è la prima volta che ciò succede nella storia dell’uomo» ( Ivi, p. 24). Un capitalismo religioso, ma, come diceva Benjamin, di una nuova religione senza metafisica e dogmi, una religione di puro culto (Capitalismo come religione, 1922). Culto quindi cultura, come scriveva sempre nel 1922 il filosofo e teologo russo Florenskij: «La stessa teoria del sacro dice che all’origine dell’economia, così come dell’ideologia, c’è il culto» ( La concezione cristiana del mondo, p. 124). Anche per Pasolini il culto è decisivo: «La conformazione a tale modello [consumista] si ha prima di tutto nel vissuto, nell’esistenza: quindi nel corpo e nel comportamento» ( Scritti corsari, p. 53).
Oggi vediamo con chiarezza che la forza straordinaria e senza precedenti della civiltà dei consumi sta proprio nel suo essere culto quotidiano e globale, senza shabbat e senza domenica, una prassi continua che informa ogni dimensione della vita individuale e collettiva, qualcosa di simile a quanto succedeva con la religione cristiana nell’Europa premoderna. I critici del capitalismo scrivono libri e fanno conferenze, ci illudiamo di cambiare il mondo scrivendo, mentre i sacerdoti del nuovo culto celebrano liturgie in tutti i momenti di tutti i giorni: «Ora il cristianesimo è diventato concorrente di quel fenomeno culturale 'omologatore' che è l’edonismo di massa: e, come concorrente, il nuovo potere già da qualche anno ha cominciato a liquidarlo» ( Ivi, p. 23). Una nuova religione laicissima senza metafisica, che ha accomunato tutto e tutti, fascisti e antifascisti, cattolici e comunisti, credenti e atei, senza «alcuna differenza apprezzabile» ( Ivi, p. 42), tutti adoratori degli stessi totem. La critica al capitalismo di Pasolini doveva essere presa molto sul serio soprattutto dalla Chiesa che, mentre combatteva le sue battaglie per l’etica familiare e contro il comunismo, non si accorgeva che un nuovo impero pagano stava occupando il cuore delle persone senza incontrare nessuna resistenza etica.
I poeti e i profeti custodendo le parole custodiscono la nostra anima. Sono sentinelle appostate sulle porte dei santuari degli idoli e fanno di tutto per non farci entrare. Sanno bene di non riuscirci, eppure restano fedeli nel loro posto di vedetta.
l.bruni@lumsa.it