sabato 17 ottobre 2020
La prigione dove è rinchiuso Zaki simbolo del terrore. Nella sezione dello «scorpione» centinaia di detenuti da mesi in attesa di giudizio. E nelle celle arriva l’incubo Covid
Un soldato nel carcere di Tora, a sud del Cairo, in Egitto

Un soldato nel carcere di Tora, a sud del Cairo, in Egitto - Ansa

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Una grande tomba di cemento, il simbolo del terrore del regime egiziano guidato dal presidente Abdel Fattah Al–Sisi. Basta attraversare l’ingresso sorvegliato da blindati e uomini armati nelle torrette collocate lungo il perimetro del penitenziario di Tora, a soli venti miglia a sud dal Cairo, per capire che la definizione coniata dagli attivisti per i diritti umani rispecchia pienamente l’essenza della famigerata struttura carceraria. Questa immensa prigione divisa in quattro blocchi, tra cui la sezione di massima sicurezza conosciuta come “lo scorpione”, rappresenta per uomini e donne, che potrebbero non affrontare mai un processo, un campo di detenzione preventiva senza via di uscita. Ancor più oggi, con il rischio elevato di contrarre il Covid–19.

Le vittime ufficiali del virus in carcere al momento sono cinque, compreso un giornalista di 65 anni, Mohamed Monir, e 160 i contagiati. Cifre, per le organizzazioni non governative che monitorano la situazione, sottostimate. Al 16 ottobre, l’Egitto aveva registrato 105.033 casi e oltre 6mila decessi ma, come ammesso dal consigliere presidenziale per la Sanità, Mohamed Awad Tag el Dein, il numero di contagi potrebbe essere molto più alto, fino a 5 volte quello rilevato. Va da sé che la situazione nelle prigioni non possa essere molto diversa. Dall’inizio della pandemia, sia gruppi per i diritti umani che istituzioni internazionali hanno rivolto appelli al governo egiziano affinché liberasse i prigionieri politici per alleviare il sovraffollamento e rallentare la diffusione della malattia. Ma nonostante l’evidente inadeguatezza del sistema sanitario carcerario, la carenza di dispositivi di protezione e di spazi per l’isolamento, il presidente Al Sisi ha concesso la grazia a soli 530 prigionieri su 65mila detenuti.

Da metà settembre, dopo una nuova ondata di proteste antigovernative e contro la polizia, responsabile dell’uccisione a sangue freddo di un cittadino inerme, sono inoltre ripresi arresti di massa e repressioni sia nella capitale che in altre città importanti del Paese come Luxor. «La Commissione egiziana per i diritti e le libertà ha potuto raccogliere informazioni sul fermo, a seguito delle proteste in Egitto dal 20 settembre 2020, di 944 persone in 21 governatorati, tra cui 72 minori e 5 donne. Le cifre reali potrebbero essere ancora più alte. Rispetto all’ondata di arresti del settembre 2019, le autorità sono ancora più restie a divulgare informazioni » racconta il direttore dell’organizzazione Mohamed Lofty, che periodicamente aggiorna l’elenco dei detenuti nel Paese. Dai dati raccolti da Ecrf appare evidente che invece di svuotare le celle, Al Sisi continui a stiparle nonostante l’emergenza coronavirus. Gli ultimi rilievi hanno evidenziato un aumento dei casi di Covid–19, passando dai 104 di inizio ottobre, ai 133 della fine della seconda settimana del mese. L’organizzazione internazionale “We Record”, che opera anche in Egitto, ha documentato la diffusione del virus in due blocchi su quattro del penitenziario di Tora.

«Sul numero dei morti non ci sono dati attendibili perché alcuni pazienti non sono stati classificati come “affetti da coronavirus” – spiega un portavoce di We Record – Ma abbiamo raccolto evidenze indiscutibili sulla mala gestione della pandemia, come testimonia il decesso di Hassan Ziada, arrivato una settimana fa nell’ospedale pubblico Al–Mahalla di Gharbia dove è morto legato mani e piedi al letto». Secondo gli attivisti, le autorità carcerarie non agiscono rapidamente e non mettono in atto misure preventive. «Nel penitenziario di Tora non effettuano test e non isolano i detenuti che manifestano sintomi della malattia. Il regime egiziano ha costantemente impedito ai prigionieri di accedere alle cure mediche come parte del suo abuso sistematico sui detenuti» denuncia l’ong che dal 2013 documenta le violazioni attraverso l’interazione con vittime, attivisti e organizzazioni della società civile. La pressione attuata sul governo, sia dall’interno che da organi internazionali, avrebbe però determinato una svolta.

Nei giorni scorsi è filtrata da ambienti governativi la notizia che le autorità penitenziarie starebbero trasformando una parte della quarta ala del carcere di Tora in un centro di quarantena per sospetti casi di coronavirus. «L’amministrazione carceraria finora ha cercato di mantenere segreto il progetto perché c’è preoccupazione per il fatto che il blocco in questione non sia attrezzato dal punto di vista medico per accogliere i prigionieri affetti da Covid–19. Le celle di questa ala sono ancora più antigieniche e sporche delle altre e non c’è luce solare» è la conclusione del portavoce di “We Record”. D’altronde le condizioni della prigione edificata nel 1928, che comprende un blocco riservato agli incriminati di terrorismo aperto negli anni ‘90, sono difficilmente migliorabili. Sin dall’ingresso e dal percorso di due chilometri che porta alla prigione, composta da 4 edifici che formano una H, è visibile il decadimento della struttura datata e maltenuta.

Le uniche aree ristrutturate sono quelle riservate agli uffici amministrativi, una piccola clinica medica e due edifici per il personale che includono la sala di riposo degli ufficiali, la biblioteca, la lavanderia e la cucina centrale. Le sezioni H1 e H2, che si trovano a destra dell’accesso principale, circondate da un muro con due porte realizzate con griglie e lamiere di ferro per bloccare la visione dal cortile esterno, e le sezioni H3 e H4, a sinistra, anch’esse circondate da pareti interne e due ingressi blindati, sono pressoché invivibili. Soprattutto d’estate quando le temperature raggiungono i 50 gradi e dalle acque del Nilo, poco distante, salgono nugoli di zan- zare. Ogni sezione è composta da quattro aree di 20 celle di circa tre metri per tre metri e mezzo, dove vengono stipati fino a 15/20 detenuti. Ogni locale ha un piccolo bagno, un lavabo e piani di cemento per dormire.

Un incubo. Ma è il blocco 4, quello di massima sicurezza, il luogo dove le condizioni di vita diventano insostenibili e si consuma il dramma, l’orrore, delle torture più atroci: cibo infestato da insetti e distribuito in contenitori sporchi, umiliazioni e sevizie continue. «I pochi prigionieri sopravvissuti ci hanno raccontato di metodi cruenti sistematici nel carcere di Tora, in particolare nella sezione “Scorpion” – racconta Ahmed Alidaji, ricercatore di Amnesty International al Cairo fino al 2017 – Io stesso ho raccolto la denuncia di un giovane che insieme ad altri 19 compagni di prigionia è stato denudato e frustato con bastoni sulla schiena, sui piedi e sui glutei dopo che i soldati avevano trovato nella cella una radio tascabile e un orologio. Stessa sorte per un gruppo di 80 occupanti di un intero blocco quando uno di loro è stato scoperto in possesso di una penna. A chi si ribella viene riservato un trattamento anche peggiore. Gli agenti penitenziari, dopo avergli affibbiato nomi femminili, li violentano a turno come “punizione” per aver violato le regole della prigione » conclude l’attivista.

Non sorprende che ai prigionieri della “Scorpion” venga negato il permesso di vedere i familiari, anche se le autorità carcerarie affermano che sia una misura necessaria per impedire ai leader di gruppi terroristici di inviare istruzioni per attacchi contro turisti, stranieri e forze di sicurezza. Ma la gran parte dei detenuti accusati di terrorismo non ha mai commesso reati o azioni che giustifichino la grave incriminazione. Come Patrick Zaki, lo studente egiziano dell’Università di Bologna imprigionato nel carcere di Tora da otto mesi e ancora in attesa di giudizio.

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