Immaginatevi se fosse un film: due giovani siriani fuggono dal loro Paese con un bambino di nemmeno un anno verso l’Occidente, verso la pace. Turchia, Grecia, Bosnia, con mezzi di fortuna: avanti e indietro. Scoprendo barriere sempre nuove, non tutte evidenti, ma dure e impenetrabili.
Poi, chissà come, finiscono arruolati in quelle migliaia di disgraziati stretti fra i confini della Polonia e della Bielorussia, spinti dai soldati di Lukashenko verso Ovest, dove si trovano davanti muri, cavalli di frisia e i militari polacchi schierati. Il bambino di quei due, che sopravvive per mesi a ogni stento, è ora nella bolgia di una guerra non dichiarata. Fino a quando – forse perché i genitori sono stati separati e feriti negli scontri – resta solo nell’improvvisato nascondiglio dove la famiglia si era rifugiata. Arrivano i soccorsi infine, i genitori sono salvi: ma il bambino, è morto. Immaginatevi se fosse un film con i nomi giusti di Hollywood, quante lacrime verserebbero gli spettatori. 'Quanto ho pianto', direbbero il giorno dopo le ragazze agli amici.
Ma non è un film, è una storia avvenuta, davvero, in queste settimane, a quel confine di cui vediamo fugaci immagini nei tg, tra un bollettino Covid e una partita di tennis delle Atp Finals. Nel tragico braccio di ferro fra Bielorussia e Polonia ci sono stati diversi morti, e di alcuni non sapremo mai. Che però fra i caduti di questa sotto-guerra ci sia anche un bambino di un anno, testimonia della ferocia dello scontro in atto. Solo da poche ore una parte dei migranti è stata accolta in rifugi riscaldati, e medici generosi (e in molti modi ostacolati) hanno potuto soccorrerli. La notizia della morte del bambino siriano viene dalla Ong polacca Polish Emergency Medical Team.
Almeno ora qualcuno ha visto, qualcuno ha toccato con mano e lo testimonia. A giudicare però dalla velocità con cui la notizia è scesa e poi sparita nelle home page dei quotidiani, si direbbe che non ce ne importi molto. Siamo sensibili ormai, almeno per un po’, a quello che si vede sullo schermo dello smartphone.
Di Alan Kurdi, il bambino siriano affogato in un naufragio di migranti, c’era almeno la foto sul web. Del bambino di cui parliamo no. Non un’immagine, qualcosa che ci si stampi negli occhi per il tempo di uno spot. E noi siamo diventati, si direbbe, incapaci di immaginazione. Eppure chiunque ha un figlio o un nipote può capire cos’è avere un bambino di un anno fra le braccia di notte, all’aperto, al freddo; e sentirne la fronte che si fa calda e poi bollente, e non avere nulla, un antifebbrile, un antibiotico, niente. Che incubo, direbbe qualsiasi genitore, al solo pensiero.
Siamo incapaci di immedesimazione, incapaci di vedere ciò che accade appena ai confini del 'nostro' mondo. Naufragi nel Mediterraneo, prigioni libiche, sentieri dell’Est su cui ora comincia a nevicare: nel mondo superconnesso, tutto è lontano, niente ci riguarda. I ragazzi del ’68, a torto o a ragione, scendevano in piazza contro la guerra nel Vietnam. Il destino di quel popolo lontano almeno li interessava. Oggi cento cortei bloccano le nostre città.
Chi sono questa volta? Ci si chiede sugli autobus fermi. Oggi i no-vax, domani i no-pass, l’altro ieri i Green, ragazzi preoccupati per le sorti del pianeta e per il futuro loro e di tutti . Giusto. Ma fra tanti cortei, uno ne manca: manca la passione umana di chi scenda in piazza per il destino – adesso, ora – di migliaia e migliaia di senza più nulla. Perché il Mediterraneo è inquinato, è vero, ma è anche una tomba: di uomini e donne e bambini. E quel bambino piccolissimo in un rifugio improvvisato in Bielorussia, nel gelo, potrebbe, visto che è quasi Avvento, ricordarci qualcosa – o Qualcuno. Era un figlio.
È un figlio. Sapete, quando sono grandi come bambolotti, quattro denti appena che si vedono quando la bocca si schiude in un sorriso. Sapete, quando traballano incerti e fieri nei primi passi, stretti alla nostra mano. Uno sforzo, minimo, di immaginazione e d’immedesimazione: non lo vedete? Era un figlio, è un figlio. Proprio come i nostri.