Gentile direttore,
quando guardo negli occhi i bambini di due o tre anni e li scorgo pieni d’innocente fiducia nel mondo, mi chiedo: che sarà di loro? In quale scenario avranno il destino di vivere? E quando penso a tutti i giovani che ho conosciuto nelle aule scolastiche, mi accorgo che, in pochi anni, si sono divisi in tre schiere: gli inseriti, i marginalizzati, e quelli che hanno imboccato una mortificante deriva esistenziale. Ma so anche che in ogni età dell’esistenza, riecheggia in noi, prepotente, impudica, una domanda fondamentale: cosa posso sperare? Nell’infanzia tale speranza è l’affidabilità dell’ambiente in cui abbiamo avuto la sorte di trovarci. Nell’adolescenza è la possibilità di costruire un progetto di vita, basato su tre prospettive fondamentali: un solido legame d’amore, un lavoro appagante, una gratificante posizione sociale. Invece, nell’età matura cominciano i bilanci sulla significatività del vissuto e ha inizio la speranza di una vecchiaia confortevole e dignitosa. Insieme alla grande domanda: che cosa c’è dopo?
Ma, se la cultura in cui siamo immersi è incentrata tutta sull’oggi, sulla produzione e sul divertimento, che senso ha parlare del “dopo”? Ammettiamolo umilmente. La nostra vita è divenuta troppo agitata, complicata, assurda. Abbiamo costruito un pauroso squilibrio fra la raffinatezza tecnologica e la fragilità interiore. Dimenticando che il nostro stesso benessere mentale è legato alla possibilità di costruire l’edificio della vita sopra il fondamento di autentici valori umani. Ignorando che se il presente è deludente, allora il futuro diventa difficile da immaginare e da progettare. Ed eccoci alla resa dei conti. Credevamo che l’orizzonte fosse azzurro e senza confini e, invece, ci siamo ritrovati, all’improvviso, di fronte a un muro, caratterizzato da cataclismi, fame e guerre. Uno scenario di morte, riassumibile in due incognite basilari: il disastro ecologico e la minaccia nucleare.
Ecco, allora, il problema centrale dell’uomo contemporaneo: la mancanza di orizzonti credibili. Lo afferma anche l’ultimo Concilio, proverbialmente ottimista, con queste insolite parole (Gaudium et Spes, 82): «Se per l’avvenire non si deporranno le inimicizie e gli odi, l’umanità, pur avendo compiuto mirabili conquiste scientifiche, potrebbe essere portata al giorno funesto in cui non sperimenterà altra pace che quella terribile della morte».
Luciano Verdone, Teramo
Lei dice in sostanza, caro professor Verdone, che ci inseguono e – al tempo stesso – ci mancano le grandi domande, gli interrogativi che aiutano a indagare il senso della vita, a dare radici alla speranza, a rendere solido l’impegno qui e ora per rendere carne e sangue gli «autentici valori umani». E conclude con dolente realismo che se davvero ci lasceremo chiudere nell’angolo delle ottuse comodità e delle paure sbagliate, come assediati da quel vasto vuoto che preme e opprime, ci consegneremo a un destino tragico. A uno «scenario di morte, riassumibile in due incognite basilari: il disastro ecologico e la minaccia nucleare». Ovvero la vertigine del possesso irresponsabile e l’incubo della guerra totale.
Concordo: la sintesi è efficace. E trovo giusto che, per far risuonare l’allarme, lei ricorra alla sapienza e alla profezia racchiuse dai padri conciliari nella costituzione pastorale Gaudium et spes. Due parole, gioia e speranza, che contraddicono ogni sconsolata amarezza e ogni rassegnazione. Già, perché è proprio quando la terra è più secca e dura e l’orizzonte sembra farsi muro che è necessario ricominciare la semina del domani, la coltivazione di un altro futuro. E a ciascuno di noi spetta di fare la propria parte, piccola o grande che sia, per far crescere la consapevolezza di ciò che vale davvero, nella certezza che solo questa pazienza consentirà di far germogliare poco a poco un tempo nuovo di pace e di giustizia. E che questo succederà se ci crediamo, se crediamo davvero. Sì, succederà. Nonostante i tuoni e i fulmini scatenati dalle tempeste del “cattivismo”, nonostante i venti aridi dell’egoismo più divorante e distruttivo, nonostante le piogge velenose dell’odio e del sospetto... Dobbiamo saper nutrire di fiducia e di buona volontà i più piccoli. E farci nutrire da loro. Dovremmo riuscire a chiederci non “che cosa sarà di loro”, ma che cosa loro saranno e che cosa verrà tramite loro. Avendo chiaro che loro sono i protagonisti, ma il percorso e il cielo sotto al quale cammineranno dipendono anche da noi: dal nostro esempio, dalla nostra generosità o dalla nostra avidità, dalla nostra slealtà o dalla nostra buona fede.
Mi riempie di allegria rendermi conto che quei bimbi – mentre scrivo “vedo” gli occhi del mio primo nipotino, che sta per compiere due anni – troveranno presto davanti a sé anche la strada d’impegno (non ci sono solo i marginalizzati, i delusi e i persi) riaperta da tanti loro giovanissimi fratelli maggiori. Penso alle ragazze e ai ragazzi che vivono la solidarietà senza fronzoli e senza paura, e a quelli che in tutto il mondo – grazie a Dio e a buoni maestri, a cominciare da papa Francesco – stanno dando forza al movimento per la difesa della «casa comune» organizzato intorno alle idee e alle pubbliche manifestazioni dei Fridays for Future. Luigino Bruni, l’ultimo giorno del 2019, su queste pagine lo ha chiamato l’«umanesimo delle “tre F”», sano ricominciamento «nella Terra lasciata desolata dalla fine delle ideologie».
È proprio così, gentile e caro professore, il «giorno funesto» verrà se mancheremo di questa voglia di vivere, di camminare, di cambiare, di incontrare e di credere. Verrà tristemente se non sapremo alzare lo sguardo e, insieme, abbracciare la realtà del mondo senza perderci in essa. Verrà ferocemente se non avremo il coraggio di abitare e salvare il tempo che ci è dato. Verrà, quell’ora «terribile», se non sapremo aiutarci, vicendevolmente, a restare umani, pacificando e riempiendo di luce anche la notte dei valori. Verrà inesorabilmente se non sapremo rianimare un senso sereno e forte e condiviso del domani. E verrà, quella “non pace” infernale, se noi cristiani non sapremo amare e far amare il di più che c’è oltre questo nostro povero e splendido orizzonte, il di più che nessun confine di umanità e di terra può contenere, il di più che c’è dopo il domani.