La popolazione mondiale ha raggiunto gli 8 miliardi nel 2022, mentre il 2023 è l'anno del sorpasso dell'India sulla Cina - Ansa
L’India ha superato la Cina ed è oggi il Paese più popoloso al mondo. Questo atteso avvicendamento tra due nazioni “miliardarie” in termini di popolazione, che secondo le stime deve essere registrato come un evento del 2023, è il risultato di diversi fattori, sia storici che contemporanei.
Negli ultimi venticinque secoli, periodo nel quale la demografia storica è in grado di ricostruire l’evoluzione delle popolazioni, i due subcontinenti più popolosi sono sempre stati l’Asia orientale e il subcontinente indiano, dove, a seconda del periodo, si è concentrata una quota di persone che ha rappresentato tra un quinto e un quarto della popolazione mondiale. Alla luce di questo, non deve dunque sorprendere che l’India, il più grande Paese del subcontinente indiano, sia oggi altamente popolato.
Per contro, è un dato significativo che l’India non abbia mai sperimentato quelle terribili carestie che secondo molti esperti avrebbero impedito, come è stato nel XIX secolo, la crescita della sua popolazione. Negli anni Cinquanta, a livello internazionale, era persino stato consigliato all’India di costruire grandi porti per importare cibo. Certo, una parte della popolazione oggi resta ancora sottonutrita, pur se si tratta di numeri assai inferiori rispetto ai primi anni Cinquanta, quando il Paese contava meno di 400 milioni di persone. E in ogni caso l’India non ha soltanto raggiunto rese agricole che oggi le consentono di alimentare con la propria produzione una parte crescente e preponderante della sua popolazione, ma addirittura esporta i prodotti dei suoi campi, oltre ad essere un Paese innovatore nel campo dell’agricoltura ecologica.
In terzo luogo, l’India è stata in grado di fare tesoro delle conoscenze acquisite nei Paesi del Nord del mondo (conquiste che possono essere riassunte efficacemente con il termine “rivoluzione Pasteuriana”) per migliorare la salute della popolazione, il che ha portato a una riduzione della mortalità materna e in età pediatrica, in un contesto che ha conosciuto anche un notevole miglioramento dei livelli di istruzione. Ciò ha portato a un forte aumento dell’aspettativa di vita alla nascita: dai 41,7 anni del 1950 si è passati ai circa 70 anni del 2016, nonostante progressi in materia di igiene che possono essere considerati ancora insufficienti.
Eppure, come la Cina, anche l’India un tempo sembrava preoccupata per la propria crescita demografica, tanto che, incoraggiata dagli Stati Uniti, nel 1976 sotto il governo di Indira Gandhi mise in atto una politica coercitiva per provare ad arginare l’espansione della popolazione. L’asse principale di questo intervento fu una campagna di sterilizzazione quasi forzata per frenare la natalità, un approccio rivelatore della mancanza di comprensione dei processi demografici, dal momento che il tasso di fecondità in India aveva già iniziato a diminuire in linea con la logica della transizione demografica. Molte sterilizzazioni, tra le milioni effettuate, avvennero in condizioni igieniche precarie, causando tantissimi decessi. Il governo seppe però riconoscere l’errore e quantomeno introdusse una forma di risarcimento per il coniuge superstite. Inoltre, a differenza della Cina, l’India è stata in grado di reagire rapidamente al processo di transizione demografica e si è dotata degli strumenti per accompagnarne l’evoluzione.
Il Paese si è anche reso conto che l’avanzata della transizione demografica non aveva bisogno di essere accelerata, in quanto dipendeva da un graduale miglioramento del sistema sanitario e dell’istruzione, in particolare dell’alfabetizzazione. In effetti, a partire dalla metà degli anni Ottanta, l’India è entrata rapidamente nella seconda fase della transizione, quella in cui il tasso di natalità cala più nettamente del tasso di mortalità.
La transizione demografica dell’India è potuta procedere in modo regolare anche perché il Paese ha goduto di una stabilità istituzionale e geopolitica. Se il Paese fosse stato coinvolto in conflitti su larga scala con i suoi vicini, se avesse vissuto conflitti civili e ribellioni regionali, non c’è dubbio che questo avrebbe avuto conseguenze sugli sviluppi demografici. La regolarità dei progressi dell’India nella transizione demografica contrasta con le vicende di altri Paesi del Sud in cui l’andamento della mortalità ha subito gli effetti prodotti da utopie politiche (il “Grande balzo in avanti” promosso dalla Cina, causa di un considerevole eccesso di mortalità), da regimi dittatoriali (Corea del Nord) o gravi conflitti civili (Liberia, Sierra Leone, Repubblica Democratica del Congo, ecc.).
Il sistema migratorio indiano ha generalmente favorito lo sviluppo del Paese. Infatti, gli indiani che emigrano all’estero, spesso con un buon livello di qualificazione, contribuiscono con i loro trasferimenti finanziari e i loro investimenti allo sviluppo del Paese, e in particolare a soddisfare i bisogni di una popolazione che continua a crescere, anche se si sta manifestando una forte decelerazione di questo processo, come conseguenza di un tasso di crescita naturale che è diminuito di un quarto a partire dalla metà degli anni Ottanta, e un numero di nascite che risulta in calo dall’inizio del 21esimo secolo.
Tuttavia, date le dimensioni del Paese e l’eterogeneità dei suoi territori, il progresso dell’India non procede in modo uniforme: a seconda della regione, le differenze nei tassi di mortalità infantile o nella fertilità possono variare da un valore al suo doppio. L’India non è uniforme e in un certo senso nemmeno la sua demografia lo è. Queste disparità regionali hanno effetti limitati sulla popolazione, data la forte inerzia dei fenomeni demografici. Tuttavia, poiché la transizione demografica è più avanzata nella metà meridionale del Paese, si sta verificando uno spostamento della distribuzione geografica della popolazione verso la metà settentrionale. Questo significa anche che gli sforzi per la creazione di posti di lavoro possono richiedere investimenti molto diversi a seconda delle regioni.
Questo articolo è stato pubblicato inizialmente come editoriale sul numero 763 (maggio-giugno) della rivista “Population & Avenir”, di cui Dumont, demografo e geografo, e docente alla Sorbona, è direttore