Nel precedente contributo ci si è soffermati sui cambiamenti che si stanno manifestando nell’attuale società e che riguardano soprattutto il modo con cui le persone stanno davanti a sé stesse e alla vita. Anche la sensibilità religiosa di oggi è attraversata da trasformazioni profonde: e lo si vede particolarmente nei giovani.
Diversi cambiamenti si vedono a occhio nudo: basta osservare da quante persone sono composte oggi le assemblee festive, e in esse qual è la percentuale di adolescenti e giovani. Oppure vedere da quante persone sono frequentate le attività della parrocchia, o i gruppi giovanili che ancora vengono promossi.
Il cambio di comportamenti a volte è frutto di perdita di interesse per l’esperienza religiosa, o di crisi personali che sopraggiungono durante l’adolescenza, o di ricerche che ora non trovano risposte. Sono vuoti che non possono non provocare la comunità cristiane e interrogare le persone che hanno a cuore i percorsi formativi delle nuove generazioni. Spesso questi vuoti sono il frutto di modelli ecclesiali, culturali e spirituali che non sono più in sintonia con questo tempo e che i giovani percepiscono come estranei alla loro vita. Viene in mente un’espressione che si legge in un breve scritto di don Primo Mazzolari sui lontani, che nel 1938 affermava che se qualcuno si allontana è perché qualcun altro si è allontanato nella direzione opposta. Allontanamenti reciproci.
I cambiamenti che avvengono nel modo di interpretare la vita da parte dei giovani di oggi si riflettono anche sulla dimensione religiosa: il senso della propria individualità, l’esposizione alle emozioni, la ricerca di relazioni... quale influenza possono avere sul modo di vivere il rapporto con Dio? l’appartenenza ecclesiale? il cammino di crescita interiore?
Se si prendono in considerazione questi aspetti, ci si rende conto che i modi di credere, di pregare, di vivere la comunità non possono che esserne influenzati. Voler prescindere da essi significa scavare un solco sempre più profondo tra le generazioni, anche all’interno della comunità cristiana.
In ricerca
Nei mesi scorsi ho realizzato un numero rilevante di lunghe interviste a giovani dai 18 ai 30 anni. Gli interessati che avevano dato la loro disponibilità non conoscevano le domande che sarebbero state poste loro. Non c’era una preparazione previa. La profondità di alcune risposte dice che con quegli interrogativi quei giovani non si misuravano per la prima volta; con essi si erano già spesso confrontati, si intravedeva nella loro vita una ricerca aperta, magari mai condivisa con nessuno.
Essere in ricerca! E sperimentare della ricerca le incertezze, le fatiche, il fascino. Una giovane ventiseienne ha rappresentato così la sua situazione: «Mi sento come una persona in una stanza buia in cerca dell’interruttore». È un’immagine che parla in maniera forte di un’inquietudine, un interesse, una domanda di autenticità che non si accontenta di risposte facili, scontate, a basso prezzo. La condizione è quella del buio, ma si continua a cercare un interruttore che accenda una luce.
La ricerca percorre sentieri impervi, strade numerose; l’impressione è quella di un andare a tentoni, come ebbe a dire l’apostolo Paolo nel suo discorso agli ateniesi. Uno di questi sentieri si dirige verso Dio. Dio non è tanto da dimostrare, ma da incontrare. Sono pochi i giovani che si interrogano sull’esistenza di Dio; sono più numerosi quelli che cercano con Lui un rapporto personale, scoprendo che non si presenta loro con i tratti che sono stati proposti loro quando andavano a catechismo. Dice questa giovane: «Dov’è? se io non ti posso chiamare quando ho un problema, se non mi posso confrontare con te per avere un'opinione, che dialogo c'è, che amicizia c'è? Questo è il vero problema, è come se mi mancasse un pezzo, è come se mi mancasse un punto, un qualcosa per capire. (...). Io non lo vedo, non lo sento».
La descrizione di Dio che dà il giovane diciannovenne autore della dichiarazione che segue potrebbe essere considerata un condensato della sensibilità diffusa: «La fede nasce dal rapporto personale che hai tu con Dio, un Dio indeterminato... che può essere cristiano come non. Dio è dentro di noi. Io con il mio Dio ho un rapporto personale. Ognuno di noi ha un rapporto singolare col proprio Dio. Ognuno di noi è unico e quindi ognuno di noi ha la sua idea di Dio». Come si vede, la parola che ricorre più frequentemente è rapporto, l’atteggiamento che prevale è quello di un approccio soggettivo a Dio; l’immagine di Dio di questo giovane ha poco a che vedere con quella tradizionale; non ci sono in lui né disinteresse né estraneità, ma una domanda di relazione e di intimità che è coerente con la sensibilità diffusa. Così la preghiera, come scrive questa giovane, è «qualcosa di intimo. È come quando tu parli privatamente con una tua amica, con una persona cara, hai delle cose da dire che magari preferisci tenere per te e per quella persona. Preferisco sempre la preghiera in camera mia o comunque in posti privati e preferisco le preghiere non prestabilite... l’Ave Maria, il Padre Nostro sono preghiere bellissime, e ovviamente non si toccano, però mi piace anche un discorso diretto con Dio».
Anche in questo caso, vi è domanda di intimità, di espressione soggettiva della propria fede nella quale raccogliere le piccole cose della propria vita quotidiana. È chiaro che la preghiera liturgica, nella quale è quasi impossibile questo coinvolgimento personale, in un rito che non è su misura dei propri stati d’animo o delle proprie soggettive modalità espressive, sia vissuta come una situazione che non coinvolge, che fa sentire estranei e annoiati: «Mi annoiavano, mi ricordo che mi annoiavo, che a volte smettevo anche di ascoltare perché mi annoiavo. Ti sentivi obbligato, anche da mia madre e mio padre che mi dicevano “Devi andare, è domenica. È brutto se non vai, perché ci vanno tutti”». Credere è difficile: lo è per gli adulti, lo è a maggior ragione per i giovani, che sperimentano come, nella società dei consumi, sia difficile credere in un Dio che «non si vede e non si compra», come si è espresso uno di loro. Il mistero di Dio è difficilmente raggiungibile da persone che sono abituate a fare i conti con una mentalità molto esteriore, manipolabile, a portata di mano. Eppure il mistero non manca di fascino, come lasciano intendere diversi di loro.
Una fede amica della vita
Nell’immaginario dei giovani che hanno frequentato il catechismo, almeno fino alla celebrazione della Comunione, l’esperienza religiosa è caratterizzata dall’obbligo o dalla rinuncia. La fede dice che cosa bisogna fare, che cosa è vietato fare. Certo, questa è una caricatura della vita cristiana, ma nella memoria dei giovani si è impresso questo carattere. La religione degli obblighi e dei divieti, nella cultura di oggi, è quasi sicuramente destinata a essere rifiutata. Spesso alla proposta cristiana è associata l’idea di sacrificio. I “fioretti” che moltissimi ragazzi anche di oggi si sono sentiti proporre hanno potuto rappresentare forse una simpatica gara con sé stessi, ma superata la fase della fanciullezza, essi lasciano nell’animo l’idea che la fede è qualcosa che ha a che fare con la rinuncia, con la mortificazione, termine che ha in sé l’idea di una morte. Com’è possibile che delle persone che si affacciano alla vita possano sentire come adatta a sé una proposta che chiede loro in qualche modo una morte?
Solo una fede che prospetti la realizzazione del proprio desiderio di felicità e di realizzazione può avere un interesse per un giovane (e non solo per lui).
La fede che i giovani cercano è una fede amica della vita, che apre loro prospettive di un’esistenza piena, quale il Vangelo contiene. La fede deve parlare alla vita e della vita; il Dio di Gesù Cristo, che si è fatto uomo, ha sperimentato la nostra stessa umanità e ha proposto un originale percorso di felicità e di salvezza, di guarigione e di realizzazione dei propri desideri più profondi e più veri. Ma i giovani che dell’essere cristiani si sono fatti l’idea che significhi “andare a Messa la domenica e comportarsi bene” sono molto lontani dal capire la vastità di orizzonti che il Vangelo può aprire loro. Nella comunicazione formativa certo qualcosa non ha funzionato. A cominciare forse dai linguaggi stessi.
Certo occorre un lungo cammino di maturazione perché questa sensibilità non conosca la deriva del soggettivismo, della religione fai da te. Forse occorre soprattutto una nuova sensibilità formativa, e la conversione, da parte dei credenti e degli educatori, a una visione dell’esistenza cristiana libera dai condizionamenti che generano l’allontanamento di giovani in cerca di autenticità e di vita.
2-continua