giovedì 30 luglio 2015
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Il tonfo del pallone oltre la siepe su un campetto di oratorio, in un pomeriggio bollente d’estate. Voci, grida, risate, e, a un goal, un boato. Rumori così familiari, così italiani. Eppure qui a Baranzate, in questo paese di 12 mila abitanti a nord di Milano, dietro a Expo, oltre il 25% degli abitanti è straniero. In via Gorizia, zona che non gode di buona fama, le etnie degli inquilini nei palazzoni di cemento sono ben 72. Le saracinesche dei negozi sono abbassate: tutti falliti.  Rimangono dei venditori di cibi afroasiatici e una lavanderia a gettone. Però, sulla decina di donne che incroci in cinque minuti di strada, tre sono incinte. Qui nascono tanti bambini. All’asilo, 85 su 100 cento sono stranieri. In questa giornata caldissima, le loro magliette variopinte stese al sole dell’asilo accanto alla chiesa mettono allegria. Entri in oratorio. Quanti ragazzi. Gli occhi verdi di una piccola rumena e quelli neri dei nordafricani ti si posano addosso.  Solo per un attimo, perché stanno giocando a qualcosa che li appassiona, e urlano, e battono le mani. Sono cattolici, ortodossi, islamici, ma giocano insieme, e parlano italiano.   Parrocchia di Sant’Arialdo, 3.000 fedeli, un posto singolare. Singolare prima di tutto il parroco, don Paolo Steffano, 50 anni, 25 di sacerdozio, un milanese della zona Magenta, quartiere benestante e borghese. Chi viene da 'quella' Milano normalmente diventa un manager, o un professionista. Cosa fa invece qui, fra gli africani e i bengalesi, quest’uomo dai tratti irregolari, gli occhi vivi, perpetuamente in movimento, addosso una polo arancione che farebbe sobbalzare molti tradizionalisti? Famiglia cattolica, il liceo al Manzoni, cresciuto negli scout, vicino ad Amnesty International, lontano dalla politica. Ma più che parlare di sé preferisce mostrare la sua parrocchia, o come dice ridendo, 'il suo regno'. Una grande chiesa moderna, l’oratorio, una bella palestra, il giardino delle Parabole con le piante della Bibbia; l’orto, il centro Caritas, il laboratorio di cucito. E poi l’associazione culturale La Rotonda, l’accoglienza dei parenti dei malati del vicino ospedale Sacco, la scuola di italiano per stranieri. Il regno di don Steffano però non è ancora finito: apre il portone di un vecchio capannone industriale. Dentro, il locale è immenso, c’è un palcoscenico ma anche un banco che pare di fruttivendolo, con le verdure fresche che avanzano dai banchi delle vicine Coop, Esselunga e Metro. In una cella i frigo per carne e pesce. Con questa roba a Sant’Arialdo danno da mangiare ogni settimana a 40 famiglie, oltre alla distribuzione di Caritas. (La sensazione di una grande, imprevedibile abbondanza che trabocchi tra le mura di questa parrocchia di periferia).  L’ufficio del parroco è una stanzetta caotica, per terra ci sono fogli e buste, fai per raccoglierle ma lui ti ferma: «Le lascio giù apposta, inciampandoci mi ricordo che devo occuparmene». Il piano della scrivania sotto al vetro è costellato di foto di bambini, parrocchiani, amici; sopra al vetro si affastellano quelli che don Paolo chiama 'pizzini', bigliettini con indicazioni abbreviate di cose da fare. Dallo schermo del pc lampeggiano, fitti, gli impegni della settimana. Una parrocchia che pare una città. Come si fa a stare dietro a tutto? Come fa il parroco a non diventare un sindaco, o un imprenditore? Lui fa uno dei suoi sorrisi lombardi: «Guardi, io faccio il prete. Ascolto le persone, seguo i ragazzi, organizzo pellegrinaggi, evangelizzo, sto accanto ai vecchi e ai malati. Mi sono tenuto ciò che è proprio del sacerdote. Il resto lo fanno i miei collaboratori, che sono tanti, italiani e stranieri, e a cui insegno a diventare autonomi. Nella Milano dei manager – sorride ironico – questo si chiama' empowerment', io lo chiamo corresponsabilità».   Dalle finestre, di nuovo l’eco della bolgia gioiosa dell’oratorio. Molti italiani, se possono, da via Gorizia se ne vanno. Degrado, spaccio, delinquenza, difficile convivenza nelle case tra gente tanto diversa. Eppure, a Sant’Arialdo viene in mente qualcosa. Certe classi di scuola elementare a Milano, anni ’60, con dieci bambini appena arrivati dal Sud che sapevano a stento l’italiano. Quando bastava sentire certi cognomi perché i milanesi dicessero: 'Quest chi, l’è un terùn'.  «Sì – ricorda don Paolo – così ragionavano i grandi, ma per noi bambini un compagno era un compagno e basta. Per i bambini è più facile, è naturale stare insieme». Sembra di rivedere gli anni in cui i prati delle periferie venivano mangiati dal cemento e in pochi mesi venivano su grandi palazzi tutti uguali, per la gente dal Sud.  Questa stessa chiesa è sorta per quegli emigrati. È possibile, ti chiedi, che riaccada? È il germe di una nuova integrazione quello che si intravede in questo oratorio? Steffano dice di sì: «La situazione è paragonabile. E non conta così tanto se le culture d’origine sono diverse. Qui in oratorio al pomeriggio vengono anche le mamme islamiche con il velo, e si portano i bambini, e mi dicono che vorrebbero insegnare ai loro figli l’islam vero – che non è quello del Califfato. Una nuova comunità sta nascendo anche nelle piccole cose. Si ricorda quando dalla Puglia gli emigrati si facevano mandare la burrata, e pareva una cosa esotica? Adesso succede lo stesso col kous kous».Eppure, gettare le fondamenta di una comunità come questa non dev’essere stato facile. Ma, all’inizio, come è andata? «L’inizio, dodici anni fa, per me è stato una incarnazione. Un vedere, ascoltare, soffrire e non avere risorse, non potere fare nulla.  Un arare, senza raccogliere niente. Poi, col tempo, ho visto che è il Vangelo che fa la sua corsa. Fa la sua strada, pure con i suoi passi falsi e i suoi errori, perché siamo uomini».   Si percepisce in quest’uomo una passione per i poveri, e per il Vangelo. Il Vangelo che, dice, «molto prima del marxismo ha parlato dei poveri, dicendo l’essenziale, come spesso ben ci ricorda il Papa». «La domenica – racconta – qui c’è una sola Messa, al mattino: una, perché voglio che sia il momento in cui ci si ritrova insieme. Almeno una delle letture è in filippino o in cingalese o in rumeno, perché tutti si sentano un po’ a casa. Alla fine, la parrocchia offre un aperitivo. Anche a chi passa dalla strada per caso». Ma allora la fama di via Gorizia, la gente che la evita, la sera, per paura?  «È tutto vero, c’è il degrado, lo spaccio e tutto il resto, eppure non è la sola verità. La verità intanto è che senza immigrati in Italia saremmo paralizzati. Perfino quelli della Lega non possono fare a meno della badante rumena, per la mamma invalida. Ma la verità poi, mi creda, è che qui c’è anche gente splendida». Qui vicino c’è un campo rom. Anche i piccoli rom vengono all’oratorio. Ma il rapporto con gli adulti, dice con franchezza Steffano, non è facile: «Non ne vogliono sapere di rispettare le regole. Alcuni abitano in questi palazzi. Se fanno la grigliata in cortile, è razzista chi protesta? O piuttosto non c’è una forma di razzismo proprio fra i rom, nel senso di sentirsi, e volere restare, diversi? Finché sono bambini è facile stabilire un rapporto, poi a 14 anni scelgono di appartenere al clan. Con i rom, io credo, bisogna essere esigenti, non buonisti».   Il parroco, bisogna dire, parla chiaro. Ora sono le quattro e, sorride, «mi vesto bene perché devo andare in Comune». Maglietta blu con una piccola croce. Inappuntabile. Si sposta per la città in motorino. Anche a dir messa al carcere di Bollate, la domenica, va in motorino.  Qual è il suo santo preferito, gli abbiamo chiesto. Lui, ridendo: «Don Milani, che non è santo». Gli abbiamo chiesto il segreto di questa parrocchia difficile e viva. «Semplicemente il Vangelo. Il segreto è lasciarsi interrogare da chi ti trovi di fronte, ogni giorno: quello è il volto con cui Cristo ti si presenta. E non si deve pretendere, come facevo io da giovane, di risolvere sempre i problemi: invecchiando capisco che spesso i problemi non si risolvono, ma, semplicemente, si accompagna il prossimo». Un vulcano, pensi andandotene. E un uomo felice. Sulla scrivania, impreviste, hai notato delle penne stilografiche. Sono la sua passione. Unico segno di appartenenza a quella Milano borghese, che per fortuna non lo ha avuto.
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