Caro direttore, uno dei rischi maggiori della proposta di legge Zan è rappresentato dall’introduzione di eccessive restrizioni alla libertà di manifestazione del pensiero. Sia chiaro: non stiamo parlando delle parole che incitano al compimento della violenza, parole che sono giustamente da punire. E nemmeno di affermazioni che ledono la dignità di una persona, anch’esse da punire (anzi, sia detto per inciso, andrebbe in via generale ripristinato il reato d’ingiuria, oggi depenalizzata). Ma parliamo del rischio di vietare e sanzionare manifestazioni del pensiero che ad esempio mettono in luce l’infungibile funzione sociale della famiglia fondata sul matrimonio, inteso come unione di un uomo e una donna, secondo quanto insegnato già dai giuristi romani e riconosciuto anche dall’art. 29 della Costituzione. I rischi emergono anche dalla lettura di alcuni progetti a fondamento dell’attuale proposta Zan: in essi sostanzialmente si riconosce che la definizione delle affermazioni lecite sarebbe rimessa al giudice, come se un’indagine e un processo a carico non fossero già una forma di pena e come se non esistesse uno Stato di diritto, in virtù del quale il legislatore ha il dovere di rendere note a tutti, ex ante, le fattispecie di reato, senza delegare alla magistratura la decisione in proposito.
L’esperienza comparatistica ci dimostra proprio in questi giorni la fondatezza di tali pericoli. In Finlandia vige da tempo una normativa simile a quella contenuta nella proposta di legge Zan. Il codice penale, sotto la rubrica Ethnic agitation, punisce fino a due anni di reclusione chi diffonde un’opinione che minaccia, diffama o insulta un certo gruppo testualmente «per ragioni di razza, colore della pelle, status alla nascita, origine nazionale o etnica, religione o credenza, orientamento sessuale o disabilità». Facendo leva sulla disposizione ora riportata è stata incriminata una parlamentare, Päivi Räsänen, moglie di un pastore protestante e ministro dell’Interno fino al 2016.
L’accusa è fondata su tre elementi. Anzitutto, nel 2004, cioè 17 anni fa, aver pubblicato un volumetto con la Luther Foundation della Finlandia, intitolato 'Maschio e femmina li creò'. In esso esprime idee fortemente contrarie all’omosessualità, ma senza né incitare all’uso della violenza, né ledere la dignità di alcuna persona. La pubblicazione del volume è, oltretutto, costata l’incriminazione anche a un vescovo luterano. La seconda ragione dell’accusa è la pubblicazione di un tweet in cui la parlamentare, postando la foto di un noto passo di san Paolo, chiede come faccia la Chiesa luterana ad appoggiare il gay pride locale. Infine, a sostegno dell’accusa vi è un’intervista in un programma radiofonico, in cui, tra l’altro, Räsänen parlava dei rapporti omosessuali e di quelli prematrimoniali qualificandoli in termini di 'peccato'.
Dunque, per delle manifestazioni del pensiero prive di legame con la violenza e non lesive della dignità di alcuna persona, in virtù di una normativa simile a quella prevista nel ddl Zan, una deputata finlandese è sotto accusa. È vero, potrà essere assolta. Ma passeranno anni, perderà tempo prezioso e soldi. Il processo, poi, insegnavano i classici, già di suo è una pena. Per difendere Räsänen hanno preso posizione alcuni autorevolissimi giuristi americani, da sempre sensibili alla garanzia della libertà di espressione e di quella religiosa, tra cui Mary Ann Glendon (Harvard) e Robert P. George (Princeton). Hanno scritto una lettera alla Commissione per la libertà religiosa degli Stati Uniti, evidenziando come la decisione del Procuratore di Helsinki d’incriminare la donna politica mette a rischio la libertà dei credenti e delle Chiese in Finlandia, imponendo di scegliere tra la eventuale prigione e l’insegnamento – pacifico, è bene ribadirlo – di norme legate alla morale e alla religione. Visto il carattere vago e onnicomprensivo delle norme penali contenute nel ddl Zan è possibile immaginare che, ove approvato, potremmo trovarci anche in Italia a dibattere presto di casi come questo.
Costituzionalista, Università Europea di Roma