Tutto secondo copione, come previsto. Sulle pensioni è finita come si immaginava da settimane, se non da mesi. Con il governo che ha tenuto fermo il principio dell’aggancio automatico fra età pensionabile e aspettativa di vita, scegliendo però la via del confronto con i sindacati, prevedendo deroghe per alcune categorie e modifiche del meccanismo di calcolo dell’aspettativa di vita. Aperture apprezzate dalla Cisl (assieme alla Uil), che incassa il risultato di aver affermato il principio per cui "non tutti i lavori sono uguali" e può presentarsi agli iscritti avendo ottenuto qualcosa di concreto per almeno 15 categorie di dipendenti. E accolte infine con insoddisfazione dalla Cgil, che proclama la mobilitazione e chiama i gruppi parlamentari per cercare di ottenere di più nella discussione della legge di bilancio alle Camere.
Tutto scontato, dicevamo. Perché il governo non aveva alternative alla conferma dell’aggancio all’aspettativa di vita, a meno di mettere a rischio la tenuta dei già precari conti pubblici e pagare pesanti costi sui mercati internazionali. Quel principio è infatti indiscutibile in un sistema previdenziale a ripartizione – nel quale cioè i contributi versati oggi servono a pagare oggi stesso gli assegni di chi è già in pensione, mettendo il disavanzo a carico della fiscalità – e con un andamento demografico caratterizzato da allungamento della vita media e da sempre meno nascite. Discutibili piuttosto erano i meccanismi di calcolo troppo rigidi, l’applicazione generalizzata "senza se e senza ma", la penalizzante progressione dell’età pensionabile persino in presenza di una diminuzione dell’aspettativa di vita. Tutti argomenti in effetti messi sul tavolo e sui quali il governo ha risposto. Con fin troppa generosità se si guarda all’impegno finanziario prospettato: 300 milioni di euro.
Fondi che, in un bilancio in deficit come il nostro, significano o ulteriore incremento del debito pubblico che grava su questa e soprattutto sulle generazioni future, oppure rinuncia al finanziamento di altre politiche sociali, ad esempio i 200 milioni del bonus bebé cancellato dalla manovra dello stesso governo Gentiloni. Per carità, giusto riconoscere la gravosità di alcune professioni (anche se c’è il rischio di tornare a fare "figli e figliastri"), ma ricordiamoci sempre che queste deroghe vengono "pagate" dai giovani, dalle famiglie, dai contribuenti e dunque si tratta sempre di bilanciare le diverse esigenze con il massimo di equità sociale possibile. Così come fin troppo generoso è stato il premier a non pretendere una firma dei sindacati sul testo – evitando così la formalizzazione di una spaccatura – impegnandosi comunque a presentare le modifiche al sistema previdenziale come emendamento alla legge di bilancio.
La Cgil ha così gioco facile ad agire come i Cobas in tanti altri negoziati contrattuali, con la strategia del 'più 1'. Incasserà in ogni caso le deroghe per le 15 categorie di lavori gravosi, ma può dire che non basta, che servivano misure per i giovani e le donne (su cui peraltro il confronto continuerà), allargando le critiche all’insufficienza della manovra nonostante contenga il rinnovo del contratto del Pubblico impiego e i fondi per il Reddito di inclusione chiesti proprio dai sindacati. E magari incassare qualche piccolo aggiustamento in più nell’esame parlamentare.
Leggere questa manovra della Cgil come la 'volata' tirata a Mdp, con Susanna Camusso pronta a candidarsi in quelle fila, però, oltre che semplicistico sarebbe sbagliato. È piuttosto qualcosa di più profondo che emerge, o meglio riemerge periodicamente nella Cgil, come incapacità di trasformarsi definitivamente e solo in un sindacato riformista, abbandonando l’idea di essere investiti della 'missione' di costituire (o 'ricostruire') la sinistra sociale del Paese, la forza che dal basso delle piazze e degli uffici, se non più dalle fabbriche, può indirizzare il processo politico. L’idea di rappresentare l’'ultimo baluardo' – altro che la vecchia 'cinghia di trasmissione'... – per ciò stesso votato non al compromesso, ma alla testimonianza, a un antagonismo quasi di necessità. Controllato, certo, ma sempre antagonismo. Un sindacato condannato a cercare di non avere 'nemici a sinistra', a tentare di non essere mai scavalcato, oggi persino da forze come i Cinque Stelle o la Lega anti-Fornero. Di qui il 'no' già prevedibile, la solita mobilitazione, blanda all’inizio con un governo ormai a termine e che, magari, potrà essere rilanciata poi, con maggior vigore, se al timone in futuro arriverà il centrodestra. Una sorta di coazione a ripetere. Tutto già visto, tutto come da copione. Restano però sullo sfondo, come convitati di pietra, due questioni assai reali: come aiutare i giovani e come tutelare i dipendenti 'anziani', al di là dei mesi di 'sconto' sull’età limite.
La pensione dei giovani, più che con alchimie contabili, si garantisce soprattutto favorendone l’occupazione, la ricomposizione delle diverse contribuzioni e le politiche attive: qualcosa è stato fatto, molto resta da fare. Per i lavoratori senior di oggi, invece, il tema mai discusso è come le aziende debbano ripensare i modelli produttivi, aggiornare e valorizzare le proprie risorse di 50, 60 e più anni. Perché costoro all’aumentata età pensionabile devono arrivarci 'vivi', cioè mantenendo un’occupazione. Di tutto questo, però, nel copione già scontato della trattativa governo-sindacati, non c’è neanche una riga di sceneggiatura. E il film non sarà un capolavoro.