Processione di una comunità cattolica in Cina. Il dialogo tra Cina e Santa Sede sta sciogliendo alcuni nodi storici - Ansa
Uscire dalla clandestinità, riunire i cattolici ufficiali e quelli sotterranei, superare le divisioni che hanno lacerato la Chiesa in Cina per settant’anni... Ieri, un passo importante in questa direzione è stato compiuto, a Fuzhou, dove il vescovo clandestino Pietro Lin Jia Shan è stato riconosciuto dalle autorità civili. Un tassello sulla via della riunificazione della comunità ufficiale e di quella sotterranea è stato posto con una celebrazione liturgica nella storica chiesa dedicata in passato a san Domenico, cui ha partecipato anche il vescovo di Xiamen. La notizia giunge dopo che, per mesi, in Cina pure la vita della Chiesa cattolica è stata ferma a causa della pandemia: le chiese sono state riaperte solo all’inizio di giugno. Ciononostante, come si vede, il cammino cominciato con l’Accordo tra Santa Sede e Governo cinese del 22 settembre 2018 non si è interrotto.
La riconciliazione tra “patriottici” e “clandestini” è stata lungamente e pazientemente perseguita dall’ormai novantenne vescovo Pietro Lin, che si è scontrato con molte resistenze e molte difficoltà. Numerosi sono stati i tentativi di forzare la situazione, da una parte e dall’altra, agendo unilateralmente nel nominare un nuovo vescovo scelto da Roma o nell’imporre un candidato voluto da Pechino. Se ciò accadesse, la divisione profonda che c’era tra le due comunità potrebbe diventare insanabile. Pietro Lin Jia Shan ha rinviato più volte la sua “ufficializzazione” per evitare strappi e conflitti. Da buon pastore, ha dato tempo a sacerdoti e fedeli per comprendere e accettare questo passaggio; ha appianato i tanti contrasti ecclesiali, personali e persino finanziari che si creano spesso in queste situazioni; non ha aderito all’Associazione patriottica e ha chiesto che sacerdoti e fedeli non siano obbligati a farlo; ha difeso la libertà di chi non accetta il riconoscimento. Ha inoltre chiesto ufficialmente la possibilità per il vescovo di svolgere la sua funzione con i tutti i poteri che gli spettano; la libertà di svolgere le attività necessarie per promuovere la fede e per formare i fedeli; locali adeguati per poter svolgere attività pastorali. Tutto ciò è avvenuto in una città importante: fondata nel III secolo a. C., descritta da Marco Polo come un grande centro commerciale aperto ai contatti con l’India, oggi capitale della provincia del Fujian con più di sette milioni di abitanti, è stata eretta arcidiocesi nel 1946 e conta 250mila cattolici.
E' un passaggio illuminante anche per capire che cosa sta succedendo tra Santa Sede e Cina. Quando fu firmato, nel 2018, i collaboratori di papa Francesco spiegarono che fini dell’Accordo con il governo cinese erano anzitutto il bene della Chiesa e il futuro del Vangelo in Cina. Ora, dopo altri eventi come le due ordinazioni episcopali del 2019, anche il riconoscimento del vescovo Lin lo conferma. La questione dei vescovi clandestini non rientra nell’Accordo, che riguarda le nomine dei nuovi vescovi (e i cui contenuti sono rimasti riservati, non per volontà di Pechino o in quanto “segreto del potere” ma per proteggere questioni delicate e persone in difficoltà dalle strumentalizzazioni degli opposti interessi); ma si sperava che l’Accordo avrebbe creato un clima favorevole alla soluzione anche di questo problema, che per la Santa Sede ha sempre rivestito un’importanza prioritaria. Così è stato per il vescovo di Fuzhou e ora si spera che possa essere per altri, anche con il sostegno essenziale dei fedeli. A partire dallo spirito nuovo che ha dato origine all’Accordo del 2018, insomma, sofferenze e problemi durati molti anni possono trovare una composizione storica, umana e religiosa altrimenti impossibile.
Ci si aspetta ora che l’iniziale fase applicativa dell’Accordo venga prolungata in vista di un approfondimento e di un miglioramento, sia dei contenuti sia dei meccanismi normativi (ciò che per il momento non è stato possibile fare come si sperava, perché l’emergenza del coronavirus ha impedito i contatti necessari). Ma il dialogo istituzionale tra le due parti, da solo, non basta: come dimostra proprio la vicenda di Fuzhou, spetta ai cattolici cinesi fare le scelte più importanti per il loro futuro. Per sostenere e aiutare tali scelte sono stati pubblicati nel giugno 2019 gli “Orientamenti pastorali della Santa Sede circa la registrazione civile del Clero in Cina” che però, chiariti il quadro generale e i punti controversi, rimandano all’iniziativa dei vescovi cinesi secondo le diverse situazioni. È dunque ai cattolici di questo Paese, ai loro problemi e alle loro esigenze che bisogna guardare, con attenzione e rispetto. Ma spesso non lo si fa, perché si ritiene di dover decidere al posto loro – rivelando, implicitamente, una sfiducia che non meritano – o, peggio, perché li si considera semplici pedine da scambiare in un gioco più grande a livello internazionale.
Avviene in particolare oggi, mentre si parla di “nuova guerra fredda” tra Stati Uniti d’America e Cina e la questione della libertà religiosa viene brandita come un’arma. Si vorrebbe che anche papa Francesco e la Santa Sede entrassero in questo gioco e si schierassero da una delle due parti, intervenendo ad esempio su Hong Kong. Ma le ferite della Chiesa cinese che ancora oggi con tanta fatica si cerca di sanare costituiscono un ammonimento severo contro le tentazioni di ragionare in una logica da guerra fredda, “vecchia” o “nuova”: sono infatti conseguenza della “vecchia” guerra fredda” e mostrano quanto sia stato grande il prezzo pagato per la scelta a favore di uno dei due campi attribuita alla Chiesa cattolica. La Chiesa, infatti, non è una potenza politica o militare che possa trarre vantaggio dai conflitti. Al contrario, le guerre – calde o fredde – creano sempre situazioni molto difficili per l’unità del suo fondamentale tessuto connettivo: una rete di rapporti umani. La sua opposizione alla guerra esprime anche una difesa accorata degli uomini e delle donne che ne sono vittime e le prime vittime di questa “nuova” guerra fredda sono oggi proprio gli abitanti di Hong Kong.
Rifiutare di schierarsi semplicisticamente in questo nuovo grande conflitto internazionale e continuare ad impegnarsi per il dialogo – come ha raccomandato molte il cardinale John Tong, alla guida della diocesi Hong Kong dopo la morte di monsignor Yeung – significa anche difendere la formula “un Paese, due sistemi”, frutto della distensione seguita alla fine della “vecchia” guerra fredda e basata sulla convivenza tra civiltà diverse, la collaborazione tra interessi differenti e una volontà di pace.