Il dibattito sul merito e la meritocrazia imperversa, alimentato anche dalla decisione di inserire il merito nel ministero dell’Istruzione da parte del nuovo governo. E continua anche su queste pagine, con gli ultimi interventi di Luigino Bruni (https://tinyurl.com/2p8zpjw6) e Andrea Lavazza (https://tinyurl.com/yrkrx2ey), a commento del recente e interessante libro La rivoluzione del merito di Luca Ricolfi (Rizzoli).
Un dato di partenza su cui tutti concordano è che, ritornando ad una nota tassonomia proposta da un economista liberale come Buchanan, i nostri risultati dipendono da quattro fattori (sorte, nascita o condizioni di partenza, talento, impegno) e solo l’ultimo di questi può essere “meritato”. Nessun dubbio infatti (anche se non infrequentemente possiamo confondere talento e merito) che Maradona o Pelè non hanno fatto nulla per meritare il talento calcistico con cui sono nati. Luigino Bruni argomenta, non senza ragioni, che anche il rendimento dell’impegno risente dell’influenza degli altri fattori (un conto è studiare in un ambiente che crea le condizioni più favorevoli per farlo, conto in un monolocale abitato da una famiglia numerosa).
Se ci pensiamo la cultura dello sport paralimpico è molto attenta a creare categorie omogenee di atleti per condizioni di partenza per ogni singolo tipo di gara. In analogia con le disabilità fisiche anche le disabilità sociali molto spesso fanno sì che l’idea di partecipare tutti alla medesima gara sia un’illusione. Anche se dobbiamo sforzarci assolutamente di credere nella forza del libero arbitrio le storie eccellenti di realizzazioni che partono da umili origini sono statisticamente eccezioni più che la norma.
Il rischio maggiore per la cultura meritocratica, quando essa si trasforma in un meccanismo che consente l’accesso ai livelli più alti d’istruzione solo ai cosiddetti “meritevoli”, è quello di generare effetti perversi indesiderati. Mi spiego. Se c’è una variabile che, in ogni tipo di ricerca, risulta significativa ed importante per il benessere di un Paese, quella è l’istruzione. E non parliamo dei corsi di eccellenza frequentati dai talenti migliori, ma del livello d’istruzione medio di un Paese che ha dietro il titolo conseguito da ciascun suo abitante. Bassi livelli d’istruzione medi in un Paese significano oggi meno crescita economica, meno anni di vita, reddito più basso (per via dei rendimenti economici della scolarizzazione), minore capitale sociale e senso civico.
In studi ancora più recenti emerge in quasi tutti i Paesi europei una classe di “arrabbiati” che si sentono a torto o a ragione vittime della globalizzazione e alimentano complottismi, negazionismi e reazioni identitarie indebolendo la fiducia nelle istituzioni. Caratteristica comune di questa classe è il basso livello d’istruzione che aumenta il rischio di cadere in semplificazioni consolatorie che identificano nella causa dei propri mali una classe di potenti o di scienziati che trama contro il popolo.
Per tutti questi motivi il primo obiettivo che le stesse élite dovrebbero perseguire per favorire lo sviluppo economico, sociale e civile di un paese riducendo al minimo conflitti e tensioni sociali non è certo quello di limitare l’accesso agli studi ma è quello dell’istruzione obbligatoria per tutti, almeno fino al termine della scuola superiore. Investendo in modo significativo per contrastare l’abbandono scolastico, una piaga che alimenta il fenomeno dei Neet (giovani che non lavorano né studiano) che assume proporzioni drammatiche nel sud del nostro paese. Purtroppo, l’investimento in istruzione che è forse la cosa più importante e un potente strumento di correzione delle diseguaglianze ex ante e di promozione delle pari opportunità non rende elettoralmente perché i suoi risultati sono differiti nel tempo. Più facile mettere qualche decina o centinaia di euro in busta paga una tantum degli elettori. Cosa che puntualmente accade in ogni legge finanziaria di destra o di sinistra.
I sostenitori della meritocrazia hanno una freccia importante al loro arco. Dobbiamo incentivare e premiare chi genera risultati positivi per il paese. Qui parliamo di merito che va oltre il periodo scolastico. E per risultati positivi dobbiamo intenderci. Conquistare fette maggiori di torte a somma zero è indice di aggressività più che di merito, migliora la condizione di chi riesce a farlo ma non accresce il benessere di un paese. Ciò che andrebbe premiata è la generatività, ovvero la capacità della propria azione di generare impatti sociali positivi (attività che gli ultimi studi sulla felicità rivelano essere in parte già premio a sé stessa) proprio favorendo accesso ed inclusione ad esempio. L’economia civile da sempre investe anche in comunicazione per far emergere buone pratiche, premiarle, mettere in rete i generativi in modo che possano aumentare il loro impatto. Se proprio dobbiamo parlare di merito allora ci piace avere a riferimento la logica e la teoria dell’Uomo ragno: a grandi poteri corrispondono grandi responsabilità.
I nostri risultati dipendono da quattro fattori (sorte, nascita o condizioni di partenza, talento, impegno) e solo l’ultimo di questi può essere “attribuito” all’individuo
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