«Di chi sono le patate?». La domanda riecheggia all’alba sul torpedone stracolmo di mercanzie d’ogni sorta, bloccato per tutta la notte alla frontiera in uscita dal Sudafrica. Qualcuno cerca di fare il furbo. Cento sacchi da venti chilogrammi non sono stati dichiarati alla dogana. In realtà, è una forma di contrabbando finalizzato alla sopravvivenza. Che però non sfugge ai solerti doganieri dello Zimbabwe. Bisogna pagare duecento dollari, americani. Il titolare delle patate si fa avanti e salda il debito. Il caos regna sovrano sul confine più battuto dell’Africa australe, a ridosso del fiume Limpopo. Il serpentone di autobus incolonnati per l’ingresso in Zimbabwe attende i controlli, lenti e quasi meticolosi. Il pullman giallo della compagnia Pioneer, partito 12 ore prima da Johannesburg, è l’ultimo della colonna. Prima di rimettersi in moto verso la capitale Harare, passano altre interminabili ore.
Vestiti da oltrefrontiera Faye, 23 anni, jeans a vita bassa e sandali infradito, ha sonno. A Johannesburg, racconta, ha comprato «vestiti e scarpe per me e le mie amiche» . Filbert, un agente fuori servizio di ritorno ad Harare, dall’altra parte del confine ha fatto scorta di lampadine e materiale elettrico. Di là, in Sudafrica – dove sono fuggiti 3- 4 milioni di zimbabwani –. costa tutto meno. Quando finalmente l’autista ingrana la marcia, una pattuglia della polizia interrompe di nuovo il viaggio. Multa per ritardo sulla tabella di marcia prevista. Inutile spiegare della lentezza alla frontiera. Bisogna pagare venticinque dollari, ancora americani.
L’iper- inflazione e il dollaro La moneta locale, che pure si chiamava dollaro, è carta straccia. Lo era già da anni. Alla fine del 2008 l’iperinflazione ha raggiunto una cifra difficile perfino da scrivere: 231 milioni per cento. Per tentare di salvare un’economia devastata, in febbraio il governo dello Zimbabwe ha messo temporaneamente fuori corso la valuta, rendendo obbligatorio l’uso dei biglietti verdi statunitensi. Una crisi che, sommata alle difficoltà politiche, aveva allontanato anche gli organismi internazionali. È di ieri la notizia che la Banca mondiale, per la prima volta dal 2001, concederà un prestito di 22 milioni di dollari, in attesa di un’ulteriore schiarita del quadro istituzionale, che potrebbe fare aprire le casse in misura più cospicua. « Noi non avevamo più colori per le nostre banconote » , sorride Jonathan Josam. « Quella da 20 miliardi di dollari locali era uguale al taglio da dieci milioni» . Josam faceva il taxista, ora è senza lavoro. Suo cugino – che forse non rientra nemmeno nel 94 per cento di disoccupati dello Zimbabwe censiti dalle Nazioni Unite – è stato per anni uno dei tantissimi cambiavalute illegali. Adesso, non c’è più nulla da cambiare. Ovunque si usano dollari e rand, la moneta sudafricana.
Scaffali un po’ meno vuoti Nel supermercato Spar, all’angolo della Quinta strada, nel centro della capitale, si trova ormai di tutto. Compreso il vino, ovviamente sudafricano. Due chili di riso constano 2 dollari e mezzo ( 1,8 euro). «Gli scaffali non sono più vuoti come nei mesi scorsi e i prezzi si sono un po’ abbassati » , ammette Tenny. «Ma come procurarsi i dollari? Per chi come me non lavora, è impossibile», riflette questo eximpiegato di una società statale di pneumatici, seduto dentro lo Shoniwa shop, bottega di alimentari nel grande quartiere popolare di Mbare. Qui in periferia il miraggio della ' dollarizzazione' svanisce nel più grande mercato all’aperto della città, dietro la ferrovia. L’economia informale percorre binari paralleli, comprese le vecchie banconote.
Fagioli contro medicine Nelle campagne però è impossibile procurarsi valuta straniera. The Herald, il giornale- megafono del governo, ha scritto che in alcune zone si fa ricorso al baratto. Nel distretto di Guruve, un uomo ha pagato con otto barattoli di fagioli le cure per la moglie. I servizi sanitari sono al collasso, incapaci di fronteggiare l’epidemia di colera che l’anno scorso ha contagiato 65.000 persone provocando più di tremila morti. «Tutti i dipendenti pubblici sono retribuiti con 100 dollari al mese indipendentemente dalla loro funzione, compreso il sottoscritto», spiega il professor John Makumbe, direttore del dipartimento di Scienze politiche all’Università di Harare. Il primo maggio, il premier Morgan Tsvangirai ha detto chiaramente che le casse statali sono vuote e che per ora è impossibile aumentare gli stipendi. «Quanti studenti ha incontrato nel campus?» , chiede il docente al cronista. Pochi, una dozzina. «Eppure, gli iscritti erano 12.000. Ma non ci sono fondi, le lezioni sono sospese» , allarga le braccia il professore. Il nuovo governo di unità nazionale ha comunque riacceso qualche speranza. « C’è buona volontà, ma non basta. Sono diminuite le violenze politiche, ma il partito di Mugabe e l’ex- opposizione ora al governo non hanno fiducia reciproca».
«Rimuovere l’ala dura» Secondo Makumbe – già capo della sezione locale di Transparency International –, per risolvere i problemi del Paese c’è un’unica soluzione. « Rimuovere dal potere l’ala dura del partito di Mugabe, che comprende i vertici delle Forze armate » . Quei generali sono i registi degli attacchi sistematici contro gli oppositori politici. E sono loro gli esecutori degli espropri delle fattorie dei bianchi. Le aziende agricole sono state affidate agli ' amici' del presidente, incapaci di gestirle dopo averle sequestrate agli eredi dei colonizzatori. « Per noi c’è sempre una ghigliottina sulla testa » , si sfoga Bruce ( « Non scriva il cognome per favore » ), un bianco ancora titolare di una fattoria di 170 ettari con 350 dipendenti nella provincia del Mashonaland. In pochi anni la gestione dissennata del regime di Mugabe ha portato alla fame l’exgranaio dell’Africa meridionale. «Ci intimidiscono continuamente. Dalle mie parti siamo rimasti in 6, eravamo in 35 » , aggiunge. Gli white farmers, i proprietari terrieri bianchi, per decenni hanno comunque sfruttato la manovalanza locale... «Di certo non erano ' buonisti' ma capitalisti in cerca di profitto – ammette Bruce –. Ora però dobbiamo dimenticare l’ideologia per rimettere in moto l’economia. Manca denaro contante. Io non sono autorizzato a ricevere valuta straniera dai clienti. Perciò dallo scorso dicembre non pago lo stipendio ai miei dipendenti » . Solo cibo in cambio di lavoro. « E chi non lavora è costretto a mangiare i frutti degli alberi selvatici».
I gesuiti in campo Mangiano soprattutto pannocchie invece Noleen e Jimu, due fratelli che vivono in una baracca di paglia e legno nelle campagne di Chishewasha, una ventina di chilometri da Harare. Orfani di madre, cacciati dalla fattoria espropriata dove lavorava il padre. Ora il Jesuit Refugee Service, organizzazione di assistenza dei gesuiti, paga loro la retta scolastica. « Il costo della scuola – spiega la responsabile Joan Mtukwa – è insostenibile per troppe famiglie. Così questo Paese si gioca il futuro ». Il presente si gioca invece con le vecchie banconote ammonticchiate sul cruscotto di un minibus- taxi diretto in centro. Si paga con un dollaro americano, il mezzo dollaro di resto può essere chiesto ancora in valuta locale: 3 milioni di miliardi.