Javier Cercas
I dibattiti in tv sono stati l’ultima occasione di convincere gli indecisi. Vi hanno partecipato i leader dei quattro principali partiti: Pedro Sánchez, premier uscente (Psoe), Pablo Casado del Partido Popular e Albert Rivera di Ciudadanos, in lizza per la leadership nel centro-destra, e Pablo Iglesias di Podemos. Grande assente Vox, escluso dalla commissione elettorale Secondo i sondaggi, potrebbe ottenere il 10,5% dei voti e 20/32 seggi all’esordio in Parlamento. Il Psoe, con il 30,3% (e 122/133 seggi) non arriverebbe alla maggioranza di 175 scranni con il solo Podemos (13,2% e 30/41 deputati). Il Partido Popular, (20,1% con 74/86 seggi), sommerebbe con Cs (15% e 48/56 deputati).
Javier Cercas, nato nel 1962 a Cáceres, è catalano d’adozione. Docente di letteratura spagnola all’Università di Girona e firma de “El Pais”, è autore di “Soldati di Salamina” (Premio Grinzane Cavour 2002), “Anatomia di un istante” (Premio Nacional de Narrativa 2010, Premio Salone del Libro di Torino 2011, Premio Modello 2011), “L’impostore” e “Il sovrano delle ombre”, editi da Guanda. Per «l’eccellente impegno personale, civile e artistico» è stato insignito del Premio Sicilia 2019. (P.D.V.)
«È evidente che l’indignazione ha cambiato parte politica in Spagna. Il voto di protesta, l’italiano “vaffa” prima capitalizzato da Podemos, ora è espresso dal partito ultranazionalista Vox. È la grande novità e può essere decisivo per la formazione di un governo delle destre. Ma le urne potrebbero anche non risolvere il rebus della governabilità e forzare nuove elezioni». Domenica, 36 milioni di spagnoli sono chiamati a rinnovare il Parlamento nelle politiche più polarizzare dal ritorno della democrazia nel 1978. Una consultazione che sarà anche il termometro del test continentale di maggio. Lo scrittore Javier Cercas traccia gli scenari del voto, anticipato dal premier socialista Pedro Sánchez dopo la bocciatura della legge di bilancio da parte dei partiti indipendentisti catalani, che a giugno avevano sostenuto la mozione di sfiducia a Mariano Rajoy. «La questione territoriale e la retorica nazional-populista – osserva – hanno segnato la campagna nel Paese, finora rimasta immune dall’estrema destra».
Perché si afferma ora in Spagna?
C’erano tutte le condizioni, dalla crisi economica a quella migratoria. Ma l’alcaloide che l’ha fatta cristallizzare è stato l’indipendentismo catalano. E poi il voto di protesta, prima monopolizzato da Podemos, si orienta ora verso Vox, come è già avvenuto in Andalusia.
In campagna elettorale, il leader di Podemos, Pablo Iglesias, è apparso come il più moderato fra gli aspiranti premier, brandendo la “Magna carta”: una metamorfosi?
Quattro anni fa volevano distruggere il regime del ’78 e oggi la Costituzione, ovvero la sua realizzazione giuridica, è la loro bandiera. Non erano credibili allora e non lo sono ora. E’ un partito diretto da politologi che fanno demagogia.
Il fulcro del confronto è stata la questione catalana, che ha condizionato negli ultimi anni la politica: come se ne esce?
È un problema centrale e di difficile soluzione, perché i sovranisti continuano a governare la Catalogna e nessuno ha chiesto scusa per la secessione unilaterale, che è stata fin dall’inizio una farsa. È rimasto tutto uguale, se ci eccettua il processo ai leader indipendentisti che hanno violato la legge.
Il Pp, Ciudadanos e Vox propongono di applicare sine die l’articolo 155 della Costituzione, ovvero la sospensione dell’autonomia alla Catalogna: è d’accordo?
Non ci sono le condizioni, ma potrebbero esserci, poiché il governo dell’attuale presidente Quim Torra continua a non riconoscere la Costituzione e a combattere una guerra di propaganda sui media catalani. Una soluzione potrebbe essere un nuovo statuto di autonomia, ma una parte non l’accetta perché non ammette che la metà dei catalani sia contraria all’indipendenza.
Il numero 2 di Vox, Ortega Smith, promette di «recuperare la sovranità del popolo spagnolo strappando alla partitocrazia i diritti e le libertà conculcati in 40 anni. È un ritorno al franchismo?
No. Si fa appello alla Riconquista, alla storia reinventata dal franchismo, ma non per tornare alla dittatura, cosa ormai impossibile. È la versione spagnola del nazional-populismo che si espande in Europa, sull’esempio di Trump, di Le Pen o Salvini. I votanti esprimono un voto reazionario, nel senso di reazione non solo alla Catalogna ma a molto altro.
Ad esempio?
Al femminismo. Il fascismo è storicamente finito. Vox semmai è una nuova maschera, più pericolosa perché la situazione è molto più complessa. Penso alla Repubblica spagnola: volle realizzare molto in fretta riforme assolutamente indispensabili e suscitò una reazione brutale, che sfociò nella guerra. Molti faticano a stare dietro ai cambiamenti vertiginosi. In Spagna come in Francia o in Italia, chi non fa parte dell’élite cosmopolita si rivolta contro. Anche contro le cause migliori, come l’ecologismo e il femminismo, che, se mal difese, possono suscitare reazioni estreme. Il partito di Abascal costruisce grandi menzogne con piccole verità. È evidente che i secessionisti catalani hanno usato il decentramento per tentare di distruggere la democrazia. Da questo però Vox pretende di eliminare le regioni. In che misura si affermerà? È la domanda.
I sondaggi danno chiara la vittoria del Psoe, ma per governare Sánchez dovrebbe appoggiarsi a Podemos e ai partiti baschi e catalani. È possibile anche un governo Pp-Ciudadanos sostenuto da Vox. Quali sono le incognite?
La governabilità. È probabile una maggioranza tra socialisti e Ciudadanos, che darebbe una certa stabilità. Da noi non esiste una cultura dei patti. Nella politica di veti incrociati e blocchi contrapposti è possibile che non si riesca a formare un esecutivo e si debba tornare alle urne. L’instabilità rischia aumentare anche con un governo dei tre partiti di destra, date le pretese di Vox ©