venerdì 31 dicembre 2010
Agli ungheresi, alle prese con una pesante recessione, il compito di guidare l'uscita dell'Europa dal tunnel. L'Estonia, con un Pil pari a un centesimo di quella italiano e una popolazione inferiore a quella di Milano, è entrata nell'euro.
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Ungheria ed Estonia, Budapest e Tallin, e nulla di più diametralmente distante potremmo immaginare in questo scorcio di 2011 per un’Unione Europea infreddolita, spaurita e preoccupata. Non fosse per la scintillante novità di due Paesi ex sovietici, il primo che assume la presidenza semestrale, il secondo che fa il suo ingresso nell’euro (e aggiungiamoci pure la Croazia, che potrebbe veder concluse le infinite formalità per avviare il processo di adesione), avremmo cieli molto bigi per l’Europa a Ventisette.La missione focale dell’Ungheria è quasi un ossimoro concettuale: nazione periclitante, impoverita, dal fiorino pesantemente svalutato e molto prossima a un default nonostante il prestito di 20 miliardi del Fondo Monetario Internazionale, è chiamata a tenere le redini della governance europea, a dare cioè nel vertice che si terrà a primavera forma e contenuto alle decisioni prese in emergenza dal Consiglio europeo di dicembre, a quell’ombrello finanziario senza fondo che garantirà (tedeschi e inglesi permettendo) il salvataggio sistematico di ogni debito sovrano, evitando la bancarotta alle nazioni deboli come la Spagna, il Portogallo, l’Irlanda, la Grecia, cui si potrebbero aggiungere il Belgio – e se la speculazione ci si mette – anche l’Italia. L’imperativo della Commissione Europea è sintetico quando chiarissimo: «Calmare i mercati e superare la crisi della moneta unica e agevolare l’accordo per la nuova governance economica della Ue».Nitroglicerina, dicono in molti a Bruxelles, nelle mani dei magiari, troppo occupati a salvare se stessi. Senza contare che una certa deriva vagamente autoritaria è innegabile: il conservatore Orban ha appena licenziato provvedimenti che restringono l’autonomia della stampa e attacca a viso aperto l’indipendenza della Banca centrale, promettendo revisioni della Costituzione non propriamente in linea con i Criteri di Copenhagen, su cui si fonda l’Europa liberale.Ma l’Unione Europea, si sa, è un bicchiere eternamente mezzo pieno. Se lo si prende dal lato giusto promette molto. Gli estoni, per esempio: orgogliosi e frementi per l’ingresso nella moneta unica, pronti a incassare la cedola della promozione dopo i sacrifici fatti per raggiungere i parametri richiesti (Ungheria e Polonia non adotteranno l’euro che nel 2019, secondo il parere degli analisti, mentre Lettonia e Lituania accederanno solo nel 2015), pur sapendo che il loro peso nell’Unione è sorprendentemente esiguo: il Pil di Tallin è un centesimo di quello italiano, la popolazione non supera quella di Milano. Ma proprio questa leggerezza potrebbe attirare gli investimenti esteri, cosa che nell’Europa del gigantismo tedesco, francese, britannico, italiano accade con sempre minor frequenza.A chi guiderà la Ue dunque la responsabilità di far filtrare un’iniezione di fiducia, carburante essenziale per gli scopi che i Ventisette si sono prefissi. La Commissione si è data un’agenda molto impegnativa: uscire dalla crisi economica e promuovere una crescita e un’occupazione sostenibile; consolidare i diritti e la sicurezza dei cittadini europei; rafforzare il ruolo dell’Unione sulla scena mondiale. Ambiente ed energia saranno i capitoli chiave dell’agenda europea, ma il 2011 vedrà soprattutto – grazie al Trattato di Lisbona – l’ingresso sulla scena di un soggetto giuridicamente nuovo, anche se istituzionalmente datato, ossia l’Europarlamento. Fino a ieri confinato a funzioni meramente consultive, l’emiciclo di Strasburgo da gennaio avrà poteri di cogestione con il Consiglio e pieno diritto di pronunciarsi su tutte le spese iscritte nel bilancio annuale. Una sorta cioè di bilanciamento dei poteri che – sulla carta, almeno – offre una garanzia di trasparenza e maggior legittimità alle decisioni di Bruxelles.Inutile nascondersi che sullo sfondo rimarranno i problemi di sempre: il rigorismo tedesco, l’asse fra Parigi e Berlino, le resistenze britanniche, le insofferenze polacche, la marginalità dei più piccoli e degli ultimi arrivati, il fossato che ancora separa l’Europa delle burocrazie dall’Europa dei cittadini. Ma, come si diceva, preferiamo pensare all’Unione Europea come a un bicchiere mezzo pieno. Quello mezzo vuoto fa decisamente molta più paura.
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