Venti ostaggi sono stati liberati mercoledì dall’inferno del Sinai. Ma almeno 15, tra le quali sei donne - tre in stato di gravidanza - rischiano di restare nelle mani dei predoni e sparire nel nulla. E nelle prossime ore si tenterà di tutto per trovare almeno i danari del riscatto delle ragazze. Intanto sulla stampa egiziana appaiono le prime conferme sul terribile traffico di uomini in atto nel deserto, notizie smentiscono ancora una volta il governo del Cairo. Dunque un mese esatto dopo la scoperta del mercato di rifugiati africani tra Egitto e Israele, arrivano novità che possono imprimere una svolta. Le persone rilasciate appartengono al gruppo degli 80 eritrei partiti dalla Libia, sequestrati un mese fa da un gruppo di predoni e detenuti in condizioni disumane. La notizia è stata data ieri da uno dei prigionieri al fratello, un profugo eritreo che vive a Berna, durante la telefonata concessa dai sequestratori per chiedere il riscatto. «Mi ha detto che è stato completato il pagamento di ottomila dollari per 20 persone– conferma H., il cui fratello è nel gruppo partito dalla Libia – che sono state rilasciate. Vengono tutti da Tripoli. Attendiamo la conferma del loro arrivo in Israele, ma altri parenti mi hanno detto la stessa cosa». Il tam tam tra nella diaspora in Europa ribadisce che i pagamenti sono avvenuti via Western union, con il metodo usuale: indirizzati agli intermediari segnalati dalla banda via sms al parente pochi minuti prima di effettuare la transazione. Anche H. è riuscito, a prezzo di grandi sacrifici, a mettere insieme la somma richiesta dai banditi. «Non posseggo più nulla. Mio fratello mi ha annunciato che domani dovrebbe essere rilasciato. Insieme a lui dovrebbero ritrovare la libertà altri ostaggi, tra i quali una donna incinta, venduti ai Rashaida dall’eritreo Faswat Mahari, che aveva organizzato il viaggio dalla Libia al Sinai. So che altri pagamenti verranno saldati in queste ore. È il regalo di Natale più bello della mia vita». Ma cresce l’angoscia per la sorte di chi non ha parenti in grado di pagare. Ibrahim ad esempio ha un cugino nel Sinai, vive a Genova con un regolare permesso di rifugiato politico ed è disperato. «Ho versato lunedì mille dollari per mio cugino ai banditi al Cairo. I sequestratori gli hanno spezzato le mani a sprangate. Però gli ho detto che non posso fare di più. Ieri mi ha detto che stanno continuando a torturarlo. Non è possibile che nessuno intervenga». Anche don Mosè Zerai, il sacerdote eritreo che per primo ha lanciato l’allarme trenta giorni fa e che da allora ha tenuto i contatti con gli ostaggi fingendosi un parente, conferma, ma non nasconde l’enorme preoccupazione per un epilogo tragico. «Non sappiamo che fine faranno le persone che non possono pagare. Sono almeno una quindicina, tra le quali sei donne. Tre sono incinta. Farò l’impossibile per cercare di trovare i soldi per salvare almeno loro, hanno subito troppo e rischiano di finire chissà dove, magari vittime del traffico d’organi. Anche se il pagamento del riscatto – conclude amaro il prete – alimenterà il traffico di schiavi. I governi e l’Onu hanno chiuso gli occhi davanti ai mercanti di uomini». Intanto sul «Daily News Egypt», testata indipendente distribuita con l’International Herald Tribune, è comparso il 22 dicembre un articolo che ammette per la prima volta la presenza dei «rifugiati africani» rapiti e torturati dai trafficanti per estorcere riscatti. Il servizio assesta un’altra picconata alle tesi del ministro degli Esteri egiziano Ahmed Aboul Gheit, il quale ancora sabato negava tutto. Una fonte anonima nel Sinai riferisce di non saper dire quanti sono i prigionieri. Ne avrebbe visti solo 30, ma ammette che il numero cresce per i continui arrivi. Soprattutto racconta un fatto avvenuto a fine novembre, quando alcuni prigionieri avrebbero sottratto le armi ai carcerieri e tentato la fuga. Sarebbero stati catturati dalle guardie di confine dopo uno scontro a fuoco che ha provocato diversi feriti. Quasi lo stesso racconto fatto dagli ostaggi a fine novembre a don Zerai sul blitz conclusosi tragicamente con l’uccisione a bastonate di sei fuggiaschi. Un resoconto che, un mese dopo l’allarme lanciato da don Mosè, rende insostenibile la posizione del Cairo. Che fine hanno fatto i feriti, sono stati curati negli ospedali egiziani? O sono stati riconsegnati ai carcerieri? Possibile che le guardie di confine non abbiano riferito ai superiori della sparatoria? Le risposte farebbero crollare il muro di silenzio eretto dalle autorità egiziane attorno al dramma del Sinai