giovedì 4 novembre 2010
I repubblicani conquistano 60 deputati alla Camera. Ridotto al minimo il vantaggio dei democratici al Senato. Dal voto esce un Congresso diviso e spinto verso gli estremi. La rimonta del Gop, accelerata dalle preoccupazioni economiche, è più cospicua nel Sud e nel Midwest. Profilo basso dei vincitori: «Molti americani sono scettici nei nostri confronti, non dobbiamo fare niente che li disturbi».
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Un mare d’inchiostro rosso – il co­lore del partito repubblicano – si allarga sulla cartina degli Stati U­niti man mano che i risultati vengono annunciati. Le grandi macchie di blu dei democratici che due anni fa ricoprivano le due coste, tappezzavano buona parte del Sud e del Nord e si infiltravano nel centro sono sparite. Perse. Per quanto tempo? Basteranno due anni al partito di Barack Obama per riprendersi dalla sconfitta di ieri, come sono bastati ai con­servatori non solo per risollevarsi dalla batosta del 2008, ma anche per portare l’orologio indietro a prima del movi­mento anti-Iraq del 2006, alla “rivolu­zione repubblicana” del 1994 e, stando al numero di seggi vinti alla Camera, an­cora prima, al 1948? È questa la questio­ne aperta che resta quando tutte le do­mande preelettorali hanno ricevuto ri­sposta, confermando la nuova tendenza a destra dell’elettorato americano. Sono allora i cortissimi cicli elettorali la nuova realtà politica americana? Rapide alternanze che non lasciano al Congres­so tempo per lavorare, o lo costringono a maratone contro il tempo come quel­le che hanno portato in 18 mesi al pac­chetto di stimolo per l’economia, alla riforma della sanità e a quella della fi­nanza? Di certo quello che esce dal voto di mar­tedì – un voto che ha visto un’affluenza superiore alla media dei midterm, ma non eccezionale – non è solo un Con­gresso diviso, con la Camera ai repub­blicani e il Senato per un pelo ai demo-­cratici, ma anche un Congresso più spin­to verso gli estremi, dopo che i centristi del partito democratico sono stati pur­gati dagli elettori liberal in risposta al­l’ondata conservatrice, e dopo che il Tea party ha spinto a destra, o sostituito con propri rappresentanti, i candidati più moderati del Grand Old Party (Gop). La nuova cartina americana ha anche vi­sto tornare “rossi” Stati che nel 2008 O­bama aveva faticosamente vinto e che sono decisivi per arrivare alla presiden­za, come l’Ohio, la Florida, la Pennsylva­nia. La rimonta alla Camera – dove tutte le poltrone erano aperte e dove il Gop ha strappato alla maggioranza 60 seggi – so­spinta dalle preoccupazioni per la pre­caria situazione economica del Paese e per l’alta disoccupazione, è stata più co­spicua nel Sud e nel Midwest, vale a di­re in Stati di centro-Ovest come Colora­do, Wyoming, Idaho, Nevada. Al Senato l’avanzata è stata più contenuta, ma for­se perché c’erano in gioco solo 37 seggi su 100. I repubblicani hanno accaparra­to almeno sei seggi senatoriali, arrivan­do a quota 46 con tre duelli ancora da decidere. I democratici sono però riusciti a rimanere attaccati, con le unghie e con i denti, ad alcuni Stati determinanti, an­che questi in vista delle presidenziali del 2012, come la California, che ha ora un governatore democratico dopo sette an­ni di Schwarzenegger, il Connecticut e il Delaware. Il capogruppo dei democratici al Sena­to, Harry Raid, è riuscito a mantenere per un pelo la sua poltrona, risparmiando a se stesso e al suo partito una sconfitta simbolicamente scottante. Ma il dolore per l’asinello è arrivato sotto forma del­la perdita del seggio dell’Illinois al Sena­to che fu di Obama e che è passato al re­pubblicano Mark Kirk, che si è presentato con una piattaforma di tagli alla spesa pubblica.«Quando lo Stato del presi­dente respinge le sue scelte di politica fi­scale, questo fa tremare violentemente la Casa Bianca», sottolineava ieri il pre­sidente del Gop Michael Steele, rigiran­do il coltello nella piaga. Ma al di là delle scontate manifestazio­ni di rivincita sui rivali democratici (e il peggio deve ancora venire: i repubblica­ni hanno già annunciato una serie di in­dagini sull’operato dei primi due anni dell’Amministrazione Obama) i conser­vatori ieri mantenevano un tono sor­prendentemente cauto. «Dobbiamo sta­re attenti a non farci trasportare», dice­va Lamar Alexandre, il repubblicano nu­mero tre al Senato. «Molti americani so­no scettici nei nostri confronti, non pos­siamo fare niente che li disturbi troppo», ammoniva il numero due del Gop alla Camera, Eric Cantor, invitando i colleghi a fare passi piccoli per rosicchiare via le misure più odiose, ad esempio, della riforma sanitaria, piuttosto che tentare di farla abrogare. I repubblicani saranno anche presi in u­na scomoda morsa. Da una parte ci sa­ranno i gruppi industriali che li spinge­ranno verso compromessi con i demo­cratici per fare passi avanti per una soli­da ripresa (continuando a spendere in infrastrutture, agevolazioni fiscali per l’innovazione e la ricerca). Dall’altra i nuovi eletti del Tea party e i loro sosteni­tori che rifiuteranno ogni collaborazio­ne con i democratici e metteranno al pri­mo posti i tagli alla spesa pubblica, costi quel che costi. Abbastanza incertezza per dare ai de­mocratici, mentre si leccavano le ferite, il coraggio di difendere le conquiste le­gislative degli ultimi due anni – anche se sono costate loro la maggioranza al Con­gresso. «Il risultato delle elezioni non sminuisce il lavoro che abbiamo fatto per gli americani», diceva ieri infatti Nancy Pelosi, mentre si preparava a cedere lo scranno di speaker a John A. Boehner. Una seduta del Congresso.
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