La notizia della morte dello “sceicco del male”, ucciso in un raid americano nella città pachistana di Abbottabad, ha suscitato, con sfumature diverse, sdegno, rabbia, cordoglio fra coloro che lottano contro il grande Satana occidentale e contro Israele. Da Gaza all’Iran, dall’Egitto al Libano il linguaggio è lo stesso: la retorica della guerra santa mostra tutta la sua anacronistica ripetitività, superata com’è dalle rivoluzioni in corso nel mondo arabo.Ismail Haniyeh, leader del movimento di resistenza palestinese Hamas, che controlla la Striscia di Gaza dal giugno 2007, prega per Osama Benladen, affinché «Allah abbia misericordia di lui e lo accolga in cielo», lui che era un «guerriero santo», «guida spirituale di al-Qaeda». Sul sito ufficiale delle Brigate al-Qassam, braccio armato di Hamas, Haniyeh, pur riconoscendo delle «differenze» fra Hamas e la rete terroristica, punta il dito contro gli americani, che «spargono sangue nel mondo musulmano e arabo». Così facendo, non si lascia sfuggire l’occasione per rimarcare le divergenze con l’Autorità nazionale palestinese di Mahmoud Abbas, che nelle stesse ore commenta invece la notizia giunta dal Pakistan come un fatto «positivo per la pace». Intanto, da Teheran, il portavoce del regime degli ayatollah definisce il decesso come «un accadimento politico», auspicando che, «se effettivamente vero, questo metta la parola fine alle guerre americane contro il terrorismo». «La morte di Benladen, a 10 anni dalle Torri gemelle, non è un grande affare», dichiara Bourjeddin, leader della commissione Esteri del Parlamento iraniano, con una sprezzante ironia.Ciò che importa è che «gli Stati Uniti si ritirino da Afghanistan e Iraq», chiedono, al pari di Teheran, i Fratelli musulmani egiziani: dal Cairo, il movimento islamista, che sta acquisendo la patente di partito nel dopo-Mubarak, condanna il raid americano, ma ritiene che, se non altro, ora Washington non avrà più motivazioni per rimanere militarmente in Medio Oriente. L’Hezbollah libanese, invece, impegnato a sostenere i «fratelli del Bahrein», minoranza sciita in lotta contro il governo centrale, preferisce limitarsi a lanciare un sondaggio sul proprio sito: «Benladen, martire oppure no?». Non mancano fra i commentatori le voci di militanti storici delle società islamiste (gamaa): invitato a intervenire sul canale
al-Jazeera, Montasser al-Zayat, avvocato egiziano specializzato nella difesa degli islamisti – fra cui Abu Omar –, compagno di cella del medico al-Zawahiri sotto Sadat, usa pochi giri di parole a proposito di americani e occidentali: «Sono loro i veri terroristi», ripete con enfasi al-Zayat.Vanno oltre, invece, i portavoce delle corti islamiche somale e degli islamisti sudanesi, i primi sottolineando «l’eredità, gli insegnamenti che lo sheikh ha lasciato», i secondi minacciando «conseguenze al raid americano» su scala mondiale. Minacce ribadite a tutto campo, in chiave nucleare, via web dai jihadisti afghani e pachistani. Insomma, se di guerra santa, negli ultimi mesi, si sentiva parlare sempre meno, l’uccisione del suo guru sembra aver ridato fiato alle trombe. Senza grandi conseguenze, sostengono gli esperti. Il nemico che i giovani arabi stanno combattendo ora – dittature pluridecennali – è tutto interno: le sirene del terrorismo internazionale potrebbero davvero essere morte ad Abbottabad.