Ogni volta che beviamo un caffè, mangiamo una mela o una bistecca, contribuiamo più o meno inconsapevolmente a scatenare un effetto domino che coinvolge uno scacchiere di Paesi nella corsa alle risorse idriche, “oro blu” dei giorni nostri. Piccoli gesti quotidiani che, se tradotti in litri d’acqua, vanno a comporre una rete liquida capace di investire ogni angolo della terra. Questo è oggetto di studio del progetto Cwasi al Politecnico di Torino, finanziato dall’Erc, Consiglio europeo della ricerca, indicatore di eccellenza in ambito scientifico.
Il progetto prova ad affrontare «la scarsità d’acqua in un mondo globalizzato». Il gruppo di lavoro è coordinato da Francesco Laio, docente di Idrologia al Politecnico di Torino, e tratta la «globalizzazione delle risorse idriche, consumate e utilizzate per la produzione di alimenti, usando metodi quantitativi per studiare gli effetti degli spostamenti di acqua sulla sicurezza alimentare e sui conflitti legati all’uso di tali risorse». Semplificando, per produrre un chilo di pane occorrono circa mille e cinquecento litri d’acqua, per un caffè o una mela intorno ai centocinquanta litri e per un chilo di carne ne servono circa quindicimila.
L’acqua di cui si parla è nota come “virtuale”, concetto introdotto da Tony Allan, docente del King’s College di Londra, nel 1993. L’acqua virtuale è il volume di acqua dolce utilizzata, direttamente o indirettamente, per produrre un prodotto, ed è strettamente correlato ad un altro concetto, quello di “impronta idrica”, coniato da Arjen Hoekstra, il cui assistente all’Università di Twente, Joep Schyns, riassume così: «L’impronta idrica è uno strumento che mostra il legame tra il consumo quotidiano di beni e il consumo di acqua e l’inquinamento».
«È una rete complessa – spiega Laio – che coinvolge diverse scienze e permette di osservare il modo in cui si propagano le crisi politiche tra diversi Paesi in un mondo non globalizzato, nel quale l’effetto non è più circoscritto, ma allargato». Circa il 92% dell’acqua consumata quotidianamente, in effetti, si sposta poiché impiegata nella produzione di alimenti. Da questo dato, il progetto Cwasi analizza l’attuale commercio alimentare internazionale e lo spostamento d’acqua che comporta, dalla produzione allo sfruttamento, fino al consumo. La metodologia di lavoro è diversificata: analisi matematica e statistica, teoria delle reti complesse, analisi multivariata non lineare e modellazione stocastica.
Spiega Marta Antonelli, responsabile di ricerca del Barilla Center for Food & Nutrition e autrice con Francesca Greco di L’acqua che mangiamo (Edizioni Ambiente 2013): «Quel volume era stato un reale tentativo da parte della comunità scientifica di provare a supportare i decisori politici. Il quadro uscito dalla nostra analisi ha restituito una visione dell’Italia fortemente dipendente dalle risorse idriche provenienti da altri Paesi, perciò è importante responsabilizzare i cittadini nel momento in cui fanno scelte, mettendo in guardia sulle conseguenze delle abitudini con un impatto in termini ecologici».
Sulla falsariga Francesca Greco, già esperta in politiche idriche internazionali per l’Unesco: «Un pomodoro irrigato in Emilia ha una valenza diversa da uno coltivato in Olanda o Marocco, anche se sembrano identici. L’impronta idrica del consumo degli italiani per settore è al 7% industriale, al 4% domestico e all’89% agricolo, per cui nel piccolo mondo di un consumatore è importante cercare di ridurre le implicazioni che può avere un allevamento intensivo, acquistando prodotti provenienti da un’agricoltura a filiera più corta, quindi più sostenibile».
Tutto ciò pone la questione se vi sia più o meno resistenza, vulnerabilità o resilienza a una crisi in questo modo. «Sicuramente – prosegue Laio – a risentire maggiormente delle crisi sono i Paesi con meno disponibilità economica, perché nel mondo degli scambi non sono tutti alla pari, anche in virtù del fatto che la produzione è finita, non infinita, per cui il meccanismo ha altresì una dimensione sociale di cui tenere conto». In questo senso, il progetto del Politecnico lavora per costituire un database e provare a prevedere le crisi idriche, economiche e alimentari, cercando di appiattire le disuguaglianze tra Paesi: «Grazie ai big data stiamo cercando di tradurre una base ordinata di numeri in equivalente di acqua consumata, ma è un problema che tocca molti altri aspetti. Il Pakistan, per dirne uno, ha un esempio di sfruttamento eccessivo dell’acqua sotterranea. La conseguenza è un danneggiamento alle falde acquifere, e ci va tempo per ricostruire la risorsa.
La cosiddetta blue water, che scorre in profondità e viene appositamente prelevata dal suolo per l’irrigazione, ha un valore maggiore in termini ambientali e di tempi di rinnovo rispetto alla green water». I tempi di rinnovo per l’acqua blu, in effetti, sono decennali e provocano un abbassamento dei livelli di falda, per cui prima di ritrovare un nuovo equilibrio passano davvero periodi lunghissimi. La scarsità di acqua è un problema che non si può rimandare, pur slegando il discorso dalle risorse agroalimentari: «Sono necessari – ancora Laio – interventi strutturali che portino la società a prevedere le situazioni e difendersi, anche attivando opere di protezione del territorio: penso ad esempio a “WaterView”, startup che ha sviluppato una tecnologia per misurare le precipitazioni attraverso le fotografie».
Lo stesso World Resources Institute ha provato a mappare i Paesi più a rischio in relazione ai più alti livelli di stress idrico, rilevandone oltre trenta che attualmente affrontano situazioni per cui sia richiesto un rapido intervento di risoluzione strutturale. Secondo uno studio di Mekonnen e Hoekstra del 2016, sono infatti molti i Paesi in cui c’è «una scarsità d’acqua da moderata a grave in primavera ed estate – dice Schyns –. La parte occidentale degli Stati Uniti, l’Europa meridionale, la Turchia, l’Asia centrale e la Cina settentrionale. Ci sono luoghi nel mondo in cui le popolazioni affrontano una grave carenza idrica durante tutto l’anno: parti dell’India, del Pakistan, dell’Egitto e del Messico, dell’Arabia Saudita e dello Yemen».
Come ridurre la scarsità d’acqua? «Si può aumentare la disponibilità di acqua – ancora Schyns –, ad esempio con la dissalazione dell’acqua di mare, o ridurre l’uso di acqua, migliorando l’efficienza del consumo con tecniche di irrigazione più efficienti, come quella a goccia. Per stimolare un uso più efficiente dell’acqua, inoltre, i governi potrebbero fissare parametri di riferimento sull’impronta idrica». Non un’unica soluzione, quindi, ma più soluzioni insieme, per far fronte a siccità sempre più frequenti, come quella che, ad esempio, ha colpito l’Italia la scorsa estate.