mercoledì 6 luglio 2011
Polemiche sui dati delle cliniche: non vengono contate le interruzioni farmacologiche. Il 4/5 per cento di chi ricorre all'Ivg è minorenne. E il governo non ha attuato alcuna iniziativa a sostegno della maternità nonostante le promesse.
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Se Carmen, a 16 anni, vuole a­bortire, da un anno a questa parte può farlo anche senza l’autorizzazione dei genitori. Non vuole dirlo a casa perché la sua de­cisione potrebbe scatenare un con­flitto familiare (ipotesi piuttosto plausibile, data la gravità della si­tuazione)? Può presentarsi in clini­ca da sola ed evitare di informare mamma e papà. La riforma dell’in­terruzione volontaria della gravi­danza voluta in fretta e furia dal go­verno di José Luis Rodriguez Zapa­tero è entrata in vigore un anno fa. A 12 mesi dalla pubblicazione nella gazzetta ufficiale, la legge – che non fu mai annunciata dai socialisti in campagna elettorale – continua ad alimentare un carosello di polemi­che, cifre, slogan, pericolose bana­lizzazioni. «È una data triste», perché ricorda che la Spagna ha riconosciuto il «rango di diritto ad un’aberrazione», ammette deluso Angel Pintado (del Partito popolare), portavoce dell’as­sociazione dei deputati “Famiglia e Dignità Umana”. La riforma ha san­cito l’aborto completamente libero entro le prime 14 settimane, per­mette l’eliminazione del feto fino al­la 22esima in caso di malformazio­ne o di rischio per la madre, ma dei “comitati etici” ad hoc possono spo­stare più in là la data dell’aborto in situazioni straordinarie. Fino al 5 lu­glio 2010, nel Paese iberico l’aborto era legale solo in tre casi: violenza sessuale, malformazione del feto o rischio fisico e psicologico per la donna. Nove interruzioni su dieci – denunciano i pro-life – si afferrava­no a quest’ultimo criterio, sfruttan­do la superficialità e le irregolarità di una rete di cliniche private in cui si consumano il 97 per cento degli a­borti. Un vero business da decine di milioni di euro all’anno. Nel Paese iberico annualmente si re­gistrano circa 115mila aborti. Ad un anno dalla riforma, l’Associazione delle cliniche accreditate per l’in­terruzione della gravidanza (Acai) sostiene che gli interventi siano di­minuiti del 5 per cento. In attesa dei dati ufficiali del governo (che pro­babilmente interpreterà il calo co­me una conseguenza della legge), le stesse cliniche ammettono che la ve­ra ragione va ricercata nel crollo del­l’immigrazione: «Negli ultimi cinque anni il numero di donne spagnole fra i 15 e i 45 anni è diminuito e non sono state sostituite dalle immigra­te, che non arrivano più per colpa della crisi», ha detto la vicepresi­dente dell’Acai, Francisca García, al quotidiano Abc . Ma attenzione – av­vertono i pro-life – nel calcolo non vengono considerati gli aborti far­macologici o quelli provocati dalla “pillola del giorno dopo”: parlare di diminuizione è falso. E le minorenni? Secondo il presi­dente dell’Acai, Santiago Barambio, le 16enni e 17enni che abortiscono rappresentano “solo” il 4-5 per cen­to del totale e di queste appena un 5-10 per cento avrebbe deciso di non comunicarlo a casa. Percentuali che fanno accapponare la pelle ai geni­tori: «Esistono basi molto ragione­voli dell’incostituzionalità della leg­ge », assicura Benigno Blanco, del “Forum della Famiglia”. Nonostante le promesse ufficiali, ne­gli ultimi 12 mesi a livello statale non è cambiato nulla nel campo degli aiuti alla maternità. Le donne in dif­ficoltà che vogliono portare avanti la gravidanza possono contare su as­sociazioni private come “Red Ma­dre”, ma dal settore pubblico rice­vono pochissimo. Sarebbe stata una riforma «a favore delle donne», di­ceva il governo di José Luis Rodri­guez Zapatero, indifferente alle pro­teste. Oggi quella premessa appare ancora più paradossale: dopo un an­no, i casi di sindrome post-aborto sono aumentati del 380 per cento.
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