Se Carmen, a 16 anni, vuole abortire, da un anno a questa parte può farlo anche senza l’autorizzazione dei genitori. Non vuole dirlo a casa perché la sua decisione potrebbe scatenare un conflitto familiare (ipotesi piuttosto plausibile, data la gravità della situazione)? Può presentarsi in clinica da sola ed evitare di informare mamma e papà. La riforma dell’interruzione volontaria della gravidanza voluta in fretta e furia dal governo di José Luis Rodriguez Zapatero è entrata in vigore un anno fa. A 12 mesi dalla pubblicazione nella gazzetta ufficiale, la legge – che non fu mai annunciata dai socialisti in campagna elettorale – continua ad alimentare un carosello di polemiche, cifre, slogan, pericolose banalizzazioni. «È una data triste», perché ricorda che la Spagna ha riconosciuto il «rango di diritto ad un’aberrazione», ammette deluso Angel Pintado (del Partito popolare), portavoce dell’associazione dei deputati “Famiglia e Dignità Umana”. La riforma ha sancito l’aborto completamente libero entro le prime 14 settimane, permette l’eliminazione del feto fino alla 22esima in caso di malformazione o di rischio per la madre, ma dei “comitati etici” ad hoc possono spostare più in là la data dell’aborto in situazioni straordinarie. Fino al 5 luglio 2010, nel Paese iberico l’aborto era legale solo in tre casi: violenza sessuale, malformazione del feto o rischio fisico e psicologico per la donna. Nove interruzioni su dieci – denunciano i pro-life – si afferravano a quest’ultimo criterio, sfruttando la superficialità e le irregolarità di una rete di cliniche private in cui si consumano il 97 per cento degli aborti. Un vero business da decine di milioni di euro all’anno. Nel Paese iberico annualmente si registrano circa 115mila aborti. Ad un anno dalla riforma, l’Associazione delle cliniche accreditate per l’interruzione della gravidanza (Acai) sostiene che gli interventi siano diminuiti del 5 per cento. In attesa dei dati ufficiali del governo (che probabilmente interpreterà il calo come una conseguenza della legge), le stesse cliniche ammettono che la vera ragione va ricercata nel crollo dell’immigrazione: «Negli ultimi cinque anni il numero di donne spagnole fra i 15 e i 45 anni è diminuito e non sono state sostituite dalle immigrate, che non arrivano più per colpa della crisi», ha detto la vicepresidente dell’Acai, Francisca García, al quotidiano Abc . Ma attenzione – avvertono i pro-life – nel calcolo non vengono considerati gli aborti farmacologici o quelli provocati dalla “pillola del giorno dopo”: parlare di diminuizione è falso. E le minorenni? Secondo il presidente dell’Acai, Santiago Barambio, le 16enni e 17enni che abortiscono rappresentano “solo” il 4-5 per cento del totale e di queste appena un 5-10 per cento avrebbe deciso di non comunicarlo a casa. Percentuali che fanno accapponare la pelle ai genitori: «Esistono basi molto ragionevoli dell’incostituzionalità della legge », assicura Benigno Blanco, del “Forum della Famiglia”. Nonostante le promesse ufficiali, negli ultimi 12 mesi a livello statale non è cambiato nulla nel campo degli aiuti alla maternità. Le donne in difficoltà che vogliono portare avanti la gravidanza possono contare su associazioni private come “Red Madre”, ma dal settore pubblico ricevono pochissimo. Sarebbe stata una riforma «a favore delle donne», diceva il governo di José Luis Rodriguez Zapatero, indifferente alle proteste. Oggi quella premessa appare ancora più paradossale: dopo un anno, i casi di sindrome post-aborto sono aumentati del 380 per cento.