Aria cattiva in Ucraina: la tregua vacilla e gli accordi firmati a Ginevra settimana scorsa restano solo sulla carta. Domenica, una sparatoria a un posto di controllo di Bilbasivka, a pochi chilometri da Slaviansk (città dell’Est ancora in mano ai separatisti) ha riacceso le tensioni. Lo scontro ha provocato la morte di tre militanti filorussi e due assalitori e innescato una dura catena di reazioni.
Ripristinando dinamiche già viste in Crimea, il sindaco autoproclamato della città, Viaceslav Ponomarev, ha proclamato il coprifuoco e chiesto al presidente Vladimir Putin di inviare le truppe «per proteggere la popolazione russofona dai fascisti». Non ha poi risparmiato parole durissime contro il ministro dell’Interno ucraino, in missione nelle regioni orientali: «Se verrà a Slaviansk – ha detto – sarò il primo a sparargli».
Da Mosca, il ministro degli Esteri russo Sergeij Lavrov, ha accusato le autorità di Kiev di «violare grossolanamente la tregua» e minacciato un intervento di Mosca per «fermare questi tentativi di scatenare una guerra civile». Lavrov è tornato ad attaccare anche sul caso-Maidan, parlando di «occupazione inaccettabile» (anche se i manifestanti di Piazza Indipendenza continuano a presidiare il luogo-simbolo con sit-in del tutto pacifici e «autorizzati» dal Comune).
Con pervicacia impermeabile ai fatti, intanto, il presidente Vladimir Putin continua a inseguire il suo “sogno euroasiatico”, puntando a contenere come può le spinte centrifughe delle ex Repubbliche sovietiche. L’Ucraina è persa, almeno per ora. In compenso la Crimea è stata ripresa. E le turbolenze nell’Est gli offrono la sensazione che non tutto sia perduto. La forza però va dosata. E il collante per tenere insieme il puzzle complicato dell’Est va ben miscelato. Così, il capo del Cremlino, cerca (e trova) soluzioni morbide. Ieri, per esempio, ha promulgato una legge solo apparentemente innocua. Il provvedimento renderà più facile e veloce l’ottenimento della cittadinanza per i madrelingua russi i cui ascendenti diretti vivano o abbiano vissuto in Russia o in un territorio che faceva parte dell’impero russo o dell’Urss. Ogni richiesta andrà valutata solo in tre mesi (il principale requisito è la perfetta conoscenza del russo). Se accettata, l’interessato dovrà rinunciare alla cittadinanza precedente ma potrà godere di molti benefici, tra cui programmi di prima accoglienza e di inserimento al lavoro. La legge è rivolta soprattutto ai cittadini della Crimea. Ma è evidente l’effetto-contagio che potrebbe innescare su tutti gli ex Paesi satelliti di Mosca. Un’altra legge, sempre firmata ieri, riguarda invece, i tatari – la minoranza musulmana della Crimea, circa il 15% della popolazione, che aveva osteggiato l’annessione alla Russia – e le altre minoranze della penisola. Si tratta, ha spiegato Putin, di un «decreto di riabilitazione » di queste comunità dopo le deportazioni staliniane al termine della Seconda Guerra mondiale. Una strizzatina d’occhio, insomma, che prevede misure sociali ed economiche. «Mosca ci vuole comprare», ha denunciato uno dei leader della comunità tatara, Mustafa Dzhemilev. Del resto, quali siano le reali aperture incoraggiate dal Cremlino lo racconta un fatto: ieri, nelle stesse ore in cui Putin firmava il decreto a Mosca, a Sinferopoli, in Crimea, trenta uomini in mimetica hanno attaccato il Parlamentino dei tatari, tirando giù la bandiera ucraina dall’edificio e malmenando tre impiegate. Non esattamente un segnale di distensione. Le speranze restano riposte in una forte pressione internazionale. A Kiev è arrivato il vicepresidente americano Joe Biden per una visita di due giorni. Avrà colloqui con tutte le più alte cariche ucraine. E, ha annunciato ieri sera il Dipartimento di Stato, porterà con sé l’“arma” di “sanzioni dirette” contro Putin. Una misura adottata in passato contro Saddam Hussein e Muammar Gheddafi.