Resti di un missile esploso nei dintorni di Mykolaiv - Ansa
Ogni notte un giaciglio diverso. Ieri, una buca coperta da una botola. Il giorno prima, un capanno degli attrezzi in mezzo a un campo di frumento. Oppure un riparo dietro al canneto sul fiume Bug. Il comandante Kovalenko parla di vita con la speranza di un condannato a morte. Ne è sicuro, il suo nome è nella lista dei sicari russi.
Gli omicidi mirati sono l’ultima brutalità di una guerra che tutti sanno arriverà all’inverno. Tra legna da spaccare per quando servirà il fuoco con cui sciogliere la neve e non dovere piu fare chilometri per trovare dell’acqua.
È di poche parole, Kovalenko. Magro e forte come un monaco zen con la faccia da ragazzo che a 47 anni ha rimesso gli scarponi da soldato. Sa d’essere ricercato dal nemico. La condanna può essere eseguita dall’alto, con un missile ipersonico. O da dietro l’angolo, dove i sabotatori russi potrebbero sbucare senza annunciarsi. Cinque li hanno arrestati domenica. Avevano telefonini «ripuliti», senza neanche una foto in memoria. E in casa un bel po’ di rubli.
Tutti sospettano di tutti. Ma di giorno Kovalenko non si nasconde. Veste da soldato. Ha una pistola nella fondina. Non ci dice se ha tolto la sicura, mentre lo incontriamo in uno dei quartieri più bersagliati di Mykolaiv. E non s’accorge che da seduto la canna della semiautomatica finisce per puntare contro di noi. «Speravo che così non mi facessi domande difficili», reagisce scherzando quando glielo facciamo notare.
Prima della guerra era un rispettato imprenditore edile. Ha parenti in politica, impegnati adesso nel volontariato per gli sfollati. I suoi operai sono ora la sua guarnigione. I russi lo vogliono morto anche per questo. Furgoni e picconi della ditta sono a disposizione di chi corre in prima linea. E anche il denaro per comprare quello che serve alla gente in armi.
Ha messo la famiglia al sicuro in Europa, ma lui non se n’è andato nonostante sia consentito lasciare il Paese per chi è padre di almeno tre figli: «È casa mia, è casa nostra. Dobbiamo farcela portare via senza dire una parola?», dice a voce bassa ma con un lampo negli occhi.
È grato quando vede arrivare aiuti umanitari dentro a pacchi “Made in Italy”. Spesso va a trovare dei volontari italiani di Operazione Colomba, che da mesi condividono la paura e gli affanni della popolazione. «So che loro sono contrari all’invio delle armi, anche se ne abbiamo bisogno, però loro hanno scelto di stare qui con la nostra gente – dice Kovalenko –. Aiutano gli sfollati e non chiedono niente. Parliamo tanto e li ammiro molto. Siamo amici. Abbiamo bisogno di loro».
La pace è una porta stretta. Ma le parole hanno il peso del piombo. I missili russi sulla popolazione inerme sono la misura della barbarie. La settimana scorsa ne hanno lanciati 43 su Mykolaiv. Mai così tanti e in così poche ore dall’inizio dell’invasione. C’è andato di mezzo anche l’autolavaggio, un ristorante di cucina giapponese, un deposito di aiuti umanitari e un vecchio albergo di fianco alla sede dove la Croce Rossa distribuisce aiuti.
Kovalenko dice che i suoi uomini non vogliono saperne di andarsene. Poco lontano, la linea del fuoco su Kherson rumoreggia stancamente. Non è una di quelle giornate da assalto all’arma bianca. La settimana scorsa a pochi isolati da qui due missili hanno fraccassato la camera da letto di un magnate del grano che stava per fuggire in Turchia. Giorni prima nella città occupata di Kherson i sicari ucraini dei «gruppi partigiani» hanno ucciso l’ex vicesindaco passato a Mosca e altri funzionari dell’amministrazione russa. Esecuzioni in strada e anche qualche autobomba per i «traditori» di Kiev.
Mentre in Afghanistan un drone Usa colpiva il capo di al-Qaeda, nel sud dell’Ucraina due missili da nove metri e alcuni quintali di esplosivo si sono abbattuti con precisione sull’appartamento di Oleksiy Vadatursky, a capo della “Nibulon”, la più grande compagnia di cereali del Paese. Vadatursky, 74 anni, è morto con la moglie. Con un patrimonio del valore di 450 milioni di dollari, secondo una stima della rivista Forbes, aveva messo a disposizione della resistenza risorse e mezzi. Soprattutto denunciava la pirateria russa tra i granai ucraini. Sapeva che i sicari lo stavano cercando. E la mattina dopo sarebbe fuggito da Mykolaiv per raggiungere la Turchia. Da li avrebbe gestito le spedizioni dei cereali e continuato a finanziare la resistenza.
Ci sono armi che non hanno bisogno di sparare. La più velenosa è quella della lingua. Kovalenko sta reimparando quella ucraina. Da queste parti si parlava solo russo, «ma lo voglio dimenticare». E quando gli fanno notare che è impossibile dimenticare le parole con cui si è stati svezzati, quelle parole con cui bussano i sogni di notte e le preoccupazioni del giorno, Kovalenko diventa malinconico. Cancellare la propria identità e la propria storia per reazione al nemico è forse tra i frutti più amari di questa guerra.
Kovalenko sorride e ci invita a tornare da lui ogni volta che passeremo da Mykolaiv. Poi si aggiusta la pistola, controlla la sicura con un sorriso beffardo. E fa per andarsene. Ci ringrazia: «Spassiba». In russo.