mercoledì 5 giugno 2013
Ancore una notte di scontri. Le autorità improvvisamente sterzano: «Le critiche sono legittime e giuste Il nostro governo rispetta ed è sensibile a tutti gli stili di vita». Ma dietro l’ondata di manifestazioni si è saldata una fetta consistente ed eterogenea dell’opinione pubblica turca. EDITORIALE Il puzzle turco-siriano di Fabio Carminati
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Ancora una notte di tensione nelle città della Turchia teatro della protesta contro il governo di Recep Tayyip Erdogan, accusato di voler islamizzare il Paese. A Istanbul e Ankara la polizia ha usato gas lacrimogeni e idranti per disperdere centinaia di manifestanti che tentavano di dirigersi verso gli uffici del primo ministro. Scontri sono avvenuti anche ad Hatay, alla frontiera con la Siria, dove lunedì un è stato ucciso e questa notte sono rimasti feriti due poliziotti e tre manifestanti.«Taksim esit Tahrir». Su una cosa Recep Tayyp Erdogan, animale politico di grande fiuto oltre che leader di una Turchia tuttora in fiammeggiante ascesa economica nonostante la Borsa e il cambio con il dollaro già precipitino, ha nettamente ragione: i moti di Piazza Taksim, impropriamente confusi con il simulacro di una “primavera turca”, non sono per nulla un fenomeno spontaneo, ma sono stati calcolati, previsti, organizzati. Magari non da «estremisti venuti dall’estero» come si è lasciato scappare il premier scivolando nel più trito degli stereotipi dei satrapi in difficoltà (da Saddam Hussein a Gheddafi a Putin perfino, il complotto straniero è l’eterna spiegazione del moto di piazza), ma certo da una fetta consistente e eterogenea dell’opinione pubblica turca, composta da ambientalisti, da radicali di sinistra come da kemalisti nostalgici di destra, da genitori e figli fino all’altro ieri disciplinati elettori dell’Akp ed oggi insofferenti manifestanti che scendono in piazza e dilagano sui social network reclamando la fine di un cappio sociale e religioso che per Erdogan avrebbe dovuto rappresentare la porta del paradiso islamico moderato, il modello neo-ottomano portatore di modernità e di volontà di potenza che tutta la regione avrebbe invidiato e che invece ora si fissa impietoso nel calco ideale – quasi fonetico – della rivolta egiziana del febbraio 2011: «Taksim uguale Tahrir», sta scritto un po’ dovunque, e come al Cairo si chiedeva di abbattere il tiranno-padre padrone Mubarak, così a Ankara, a Smirne, a Iskenderun, nella civilissima Istanbul si chiede a Erdogan di lasciare la guida del Paese.Richiesta molto velleitaria (il premier è in viaggio nel Maghreb e ostenta serenità e una certa sufficienza, sebbene invito analogo provenga – per tutt’altra ragione – anche dal vicino di casa Bashar al-Assad ), che tuttavia già ha costretto il presidente Gül e il vicepremier Bulent Arinc a una vigorosa sterzata: «Le proteste sono legittime e giuste. Il nostro governo rispetta ed è sensibile a tutti gli stili di vita». Risposta obliqua ma inequivocabile ai divieti in agguato nella vita quotidiana della Turchia, dalle sigarette all’alcool, fino a quel sottile ma persistente <+corsivo>pensiero unico<+tondo> in salsa islamica che intellettuali e giornalisti (molti dei quali sono in carcere da mesi) invano denunciano in nome di una laicità che è soprattutto voglia di democrazia.«Vorrà fare il presidente a vita, come tutti i dittatori mediorientali, per questo vuole cambiare la Costituzione», profetizza sconsolata Mirage Gazi, una delle anime dell’intelligentsija letteraria del Bosforo. Esagera, perché Erdogan non è giunto al potere con un colpo di Stato ma è stato eletto e portato sugli altari ben tre volte da una neoborghesia trionfante che si è saldata con la profonda Anatolia tradizionalista. Ma è altrettanto vero che con Erdogan due travi portanti della vecchia Turchia si sono incrinate: il potere assoluto della casta militare e le conquiste laiche di Kemal Atatürk, il fondatore che vietò il fez e il velo, concesse il diritto di voto alle donne e sancì la separazione tra Stato e religione. «È una guerra di identità – suggerisce Atagün Alpay, che gestisce una delle più belle e frequentate librerie dello storico quartiere di Pera –, il vecchio e il nuovo che si accapigliano. E Erdogan non è più il nuovo, questo sia chiaro...»
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