«Lo Zimbabwe emerge appena da un periodo di conflitto politico e di disastro economico. Ciò spiega le persistenti sofferenze del popolo. Oggi i rappresentanti di tutti i partiti, senza eccezioni, hanno il dovere di negoziare entro i prossimi 18 mesi tutti gli accordi nel quadro del processo di unità nazionale in corso». Dopo anni di strenue battaglie sindacali e poi apertamente politiche, che hanno incluso periodi di prigionia per il suo ruolo di principale oppositore del regime di Robert Mugabe, dallo scorso febbraio Morgan Tsvangirai può parlare dall’alto del suo ruolo di primo ministro. Ma il patto politico da poco raggiunto con l’inamovibile e anziano presidente-padrone pare a molti osservatori estremamente fragile. Nondimeno, riguardo alle relazioni con Mugabe, il neopremier cerca di ragionare in positivo: «Malgrado la rivalità che ci separa, abbiamo preso atto dell’attuale situazione e cerchiamo di lavorare assieme per il bene del Paese. Non è il momento di volgere lo sguardo al passato. Personalmente, voglio pensare solo al futuro».
Come valuta l’evoluzione del processo in corso? Il governo di coalizione è all’opera da quattro mesi e abbiamo già compiuto progressi innegabili. Abbiamo riaperto tante scuole e tanti ospedali, assicurando di nuovo pure la distribuzione dei beni di consumo e a un prezzo abbordabile. Abbiamo soprattutto gettato le basi della pace e della stabilità. Ma dobbiamo fare di più nei prossimi mesi.
Dopo la tournée internazionale da lei appena compiuta e gli incontri politici in varie capitali, cosa attende dall’Unione europea? Le nostre aspettative sono duplici. Innanzitutto, dopo il pesante recente passato, vogliamo normalizzare le relazioni grazie a discussioni nel quadro dell’articolo 8 dell’accordo di Cotonou. In secondo luogo, vorremmo accedere ai fondi che ci permetterebbero di ottenere risorse da destinare allo sviluppo. Su quest’ul- timo punto siamo consapevoli che esistono ancora dubbi e diffidenze nei confronti del nostro Paese. La chiave, per il momento, resta proprio la normalizzazione diplomatica.
Si è molto parlato del recente incidente stradale costato la vita a sua moglie, che si trovava al suo fianco. Ha mai pensato, dopo quest’incidente, di poter lasciare la politica? Vorrei innanzitutto chiarire che si è trattato proprio di un incidente, come ha mostrato l’inchiesta. Insisto su questo punto. Non sono stato affatto tentato di abbandonare la politica. Mia moglie mi aveva sempre dissuaso dal poter mai un giorno abbandonare la lotta. La mia famiglia e il mio partito mi sostengono, nonostante siano stati anch’essi sconvolti dall’incidente. Il Paese nel suo insieme attende che la libertà venga finalmente ritrovata. Il dolore che provo è oggi un motore supplementare per battermi. Questo dolore mi vieta di abbandonare, almeno fino a quando la democrazia non sarà ristabilita.
Come qualificherebbe il suo attuale rapporto con il presidente Mugabe? I negoziati da cui usciamo sono stati tempestosi. Ma oggi abbiamo trovato un terreno d’intesa, anche se spesso ci troviamo in disaccordo. Si tratta in ogni caso di una relazione di lavoro, quasi di una relazione fra uomini d’affari. Le differenze restano su molti punti, ma ci accordiamo almeno sull’obiettivo finale di questo lavoro che svolgiamo assieme, ovvero servire il nostro Paese. In nome di questo principio supremo, pensiamo che non esistono sfide che non possiamo tentare di affrontare assieme.
Fra i numerosi problemi aperti del Paese c’è la questione agraria. Qual è oggi la sua posizione? Esiste un nuovo accordo per affidare a una commissione indipendente una valutazione della situazione fondiaria. Il Paese era un tempo un granaio per l’Africa ed oggi il granaio è vuoto. L’obiettivo è di riempirlo di nuovo. Occorre distribuire le terre in modo equo e sappiamo che la chiave di questa riforma è una garanzia effettiva dei titoli di proprietà.