Donald Trump vuole comprare la Groenlandia, ma l’isola danese risponde di non essere in vendita. L’idea, che negli ultimi duecento anni ha tentato almeno tre altre Amministrazioni americane, sarebbe stata lanciata da alcuni consigliere del presidente, che l’avrebbe presa sul serio. Tanto da spingerlo a valutare di fare un’offerta alla Danimarca per l’enorme isola a nord del Circolo polare artico. Secondo il Wall Street Journal, che ha pubblicato l’indiscrezione, il capo della Casa Bianca avrebbe intenzione di parlarne con la premier Mette Frederiksen a inizio settembre durante una visita ufficiale in Danimarca.
Ma venerdì la Groenlandia, amministrata autonomamente da un governo locale, ha fatto sapere di non essere interessata a diventare americana. «Abbiamo una buona cooperazione con gli Usa e guardiamo ad essa come un’espressione di grande interesse per gli investimenti nel nostro Paese e per le possibilità che offriamo. Ovviamente, la Groenlandia non è in vendita», si legge in una nota pubblicata sul sito del governo dell’isola.
L’idea, però, non è nuova e mette in evidenza la strategia d’espansione americana adottata sin dalla seconda metà dell’Ottocento e ora rafforzata in chiave anti-Cina e anti-Russia. «Già a inizio Ottocento gli Stati Uniti acquistarono la Louisiana francese e poi, nel 1867, fecero il grande colpo, versando circa 150 milioni di dollari (in valore attuale) allo Zar, che era in crisi dopo la Guerra di Crimea, per impadronirsi dell’Alaska – spiega Marzio G. Mian, fondatore, insieme ad altri colleghi internazionali, del The Arctic Times Project –. Lìanno dopo, il segretario al Tesoro incaricò il giovane ingegnere minerario Benjamin Pierce di valutare l’acquisizione di Islanda e Groenlandia». Non se ne fece nulla.
Dopo la Seconda Guerra mondiale, il presidente Harry Truman offrì in segreto alla Danimarca 100 milioni di dollari. Allora, racconta lo storico Ronald Doel, c’era consenso fra i vertici della Difesa sul fatto che il territorio fosse «indispensabile per la sicurezza degli Stati Uniti» e «senza valore per la Danimarca». Copenaghen lo considerò un insulto.
La questione per gli Stati Uniti fu risolta con un trattato firmato con i danesi nel 1951, grazie al quale il Pentagono costruì in Groenlandia la base aerea di Thule, la più settentrionale e una delle più grandi della difesa americana. Quando fu costruita la base di Thule, i nativi inuit vennero forzosamente trasferiti in un nuovo insediamento, 100 chilometri più a nord.
Oggi la Groenlandia ha una popolazione di quasi 56mila abitanti, l’88% dei quali inuit, dispersi su un territorio di oltre 2 milioni di chilometri quadrati. Oggi la Groenlandia torna a essere allettante per Washington grazie al cambiamento climatico che ha reso l’isola più grande del mondo, con una superficie di oltre 2,1 milioni di chilometri quadrati, molto più vivibile e sfruttabile, non solo militarmente ma anche per le sue risorse minerarie.
Si aggiunge inoltre la sua importanza come base meteo per monitorare gli effetti dei cambiamenti climatici, mentre lo scioglimento dei ghiacci apre nuove vie di navigazione commerciale lungo le sue coste. «La regione è diventata un’arena di competizioni tra potenze globali», diceva lo scorso maggio il segretario di Stato Mike Pompeo alla conferenza delle nazioni dell’area artica.