Congelare Aleppo, con micro tregue temporali per ridare fiato alla popolazione e consentire alle fazioni di ritrovare la lucidità e la volontà di un negoziato. Questa era, in sintesi, la proposta delle «freeze zones» ad Aleppo, formulata lo scorso inverno dall’inviato speciale Onu, Staffan de Mistura.
Tareq Mitri, docente all’American university di Beirut, ministro della Comunicazione nel 2006, quando premier in Libano era Foud Siniora, nel 2010 inviato speciale dell’Onu in Libia, prima di cedere il passo a Bernardino Léon, è uno dei più acuti analisti di questioni mediorientali. «Un progetto», quello delle freeze zones, «che al momento sembra lasciato cadere. Il regime siriano continua a bombardare senza sosta e, nonostante le assicurazioni date a de Mistura, non ha cambiato politica sul terreno. Inoltre l’inviato Onu non può negoziare con i gruppi terroristici, a partire dal Daesh, che si trovano pure nella periferia di Aleppo. Per questo a De Mistura non resta che la pista delle negoziazione politica».
Svanita quindi l’ipotesi di un cessate il fuoco per Aleppo? Non è stato ufficialmente abbandonato, ma ora De Mistura non ne parla più. Ma, indipendentemente da de Mistura, bisogna continuare a parlare di Aleppo perché è una città-simbolo, una città che è sempre stata plurale: numerose comunità religiose e numerose culture, gli armeni, i curdi, i turcomanni oltre che gli arabi vivevano assieme. È pure una città martire perché è stretta a tenaglia fra i bombardamenti aerei dell’esercito di Bashar al-Assad, i radicali islamici che cercano di penetrare e c’è pure l’opposizione dell’Esercito libero siriano che controlla alcuni quartieri. Una situazione militare molto complicata, non si sa come possa andare a finire. Penso, a questo punto, che solo una soluzione politica per l’intera Siria ci può permettere di trovare una soluzione per questa città.
Dunque salvare Aleppo significa necessariamente salvare la Siria? Sì, ma dicendo questo ritengo che sia importante mobilitarsi, promuovere una campagna su Aleppo, perché è l’immagine di una società pluralista che ci si augurerebbe di avere, di poter conservare in Siria anche per il futuro.
Dopo il fallimento dei colloqui di Ginevra 2, come si può far ripartire un tavolo politico per la Siria? I negoziati di Ginevra 2 sono falliti perché Bashar al-Assad non era pronto a fare la minima concessione. Ginevra 1 stipulava la formazione di un governo di transizione con pieni poteri. Questo voleva dire che la presidenza siriana avrebbe avuto meno potere. Assad non era molto favorevole a questa soluzione, si sentiva forte militarmente e quindi non ha voluto fare le concessioni richieste. Ora, forse, si è indebolito militarmente, potrebbe essere più aperto a questo soluzione. Ma de Mistura non pare essere molto ottimista, procede lentamente, con molta prudenza: fa delle discussioni bilaterali con i Paesi della regioni, con i membri del Consiglio di sicurezza e con le forze politiche siriane. Sta sondando le loro opinioni per vedere se c’è un accordo di massima sulla possibilità di convocare un nuovo tavolo per cercare una soluzione politica. Questo è quello che dicono tutti, la Russia pure lo ha dichiarato, sta cercando questo risultato. Credo che le Nazioni Unite siano obbligate a perseguire questo risultato. Non c’è altra scelta. Dunque bisogna perseverare, continuare a parlare, a mobilitarsi per Aleppo e per cercare una soluzione generale.
Come giudica gli sforzi delle Nazioni Unite in Libia, dove lei è stato alto rappresentante Onu prima di Bernardino León? Si giungerà a una soluzione politica anche in Libia? Lo spero. In ogni modo non penso che la Comunità internazionale sia in grado di intervenire. Bisogna trovare una soluzione libica per la Libia, e questa passa per il dialogo e per la creazione di una struttura di governo inclusiva. Dopo l’intervento militare, la caduta di Gheddafi e la partenza degli occidentali, le Nazioni Unite sono andate in Libia per aiutare a ricostruire le istituzioni. Io ho scoperto, in quell’occasione, che non c’erano dei partner libici per ricostruire le istituzioni. Non c’era più l’esercito, c’erano 300mila uomini armati. Si è andati alle elezioni, ma con queste premesse hanno diviso ancora più il Paese. Ora è in una situazione che potremmo definire somalizzata: da qui l’importanza di trovare un minimo comune denominatore per un accordo politico e condividere, in modo inclusivo, il potere.