Il quartiere diplomatico di Gulshan, nella capitale Dacca, è stato teatro la notte scorsa di quella che è forse la sfida più grave del terrorismo islamista al governo bengalese. Ma non è la prima volta che quest’“isola” venga macchiata col sangue. Proprio a Gulshan nella serata del 28 settembre dello scorso anno il nostro connazionale Cesare Tavella era stato ucciso per strada mentre stava facendo jogging. Un evento tragico, quello dell’assassinio di Tavella: a essere ucciso un cooperante straniero in un’area dove sarebbe dovuta essere garantita, almeno in teoria, la massima sicurezza. Un omicidio che segnalava già allora l’irruzione di una nuova strategia terroristica nella quale risultava evidente, da un lato, la connessione con il jihadismo di ispirazione qaedista, attraverso vari gruppi attivi da tempo e messi fuorilegge. Ma anche con le velleità di estensione del conflitto mediorientale da parte degli uomini del Daesh, che da un paio d’anni hanno ufficialmente aperto un fronte asiatico meridionale. In particolare, l’attentato a Tavella, come quello pure mortale del 3 ottobre al consulente agrario giapponese Kunio Hoshi nel distretto settentrionale di Rangpur e l’aggressione il 18 novembre, del missionario del Pontificio Istituto Missioni Estere (Pime), padre Piero Parolari nella diocesi di Dinajpur – ferito alla testa, scampato per un soffio alla morte – erano stati rivendicati da Daesh. Gli stranieri nel mirino erano comunque un’eccezione fino a ieri, ma oggi sempre più parte di un’offensiva che da tre anni sta minando sicurezza e convivenza nel Paese asiatico. Una cinquantina finora le vittime, una mattanza attuata perlopiù con asce e coltelli, con modalità di esecuzione troppo simili per essere casuali che ha come scopo di intimidire la società civile, gli intellettuali, le minoranze religiose e una presenza straniera in cui un peso sensibile hanno organismi e individui impegnati a garantire al Paese asiatico una prospettiva diversa da quella di disaffezione e sottosviluppo. Impedire anche, indirettamente, che l’insoddisfazione diffusa per un progresso sempre troppo lento e condizionato possa dirottare tanti verso la deriva estremista in senso religioso. Al momento, tuttavia, impegno repressivo, campagne di protesta e solidarietà verso le vittime che hanno nei blog e nei social network un fronte avanzato, sono risultati inefficaci a frenare un’offensiva terroristica che va alzando frequenza di attacchi e qualità degli obiettivi. Nella mattinata di ieri, un altro indù è stato ucciso da assalitori in motocicletta che gli hanno teso un agguato presso un tempio dove svolgeva attività di volontario durante le funzioni religiose. Colpito al collo e alla testa con armi da taglio, Shyamananda Das, 50 anni, è deceduto in ospedale. Nessuna rivendicazione diretta ma, come in altre occasioni, a attribuirsi l’uccisione di Das ancora il Daesh che ha finora rivendicato circa un terzo della cinquantina di omicidi di musulmani laicisti, attivisti per i diritti civili e gruppi religiosi minoritari dell’ultimo triennio. Ultimo esponente indù a essere assassinato a inizio giugno era stato Gopal Ganguly, leader religioso dello stesso distretto orientale in cui è morto Das. Per la sua aggressione, è stato finora arrestato un attivista del partito Jamaat-e-Islami. Il 28 giugno, sono stati formalmente incriminati per l’omicidio di Cesare Tavella sette individui, tra cui esponenti dell’opposizione politica, un successo almeno parziale della reazione ufficiale a una situazione che appare francamente fuori controllo. Le autorità, che a metà giugno – dopo l’assassinio di tre esponenti delle minoranze, tra cui un commerciante cattolico – avevano lanciato un’offensiva durata una settimana con l’arresto di migliaia di individui, continuano a negare la maggior parte delle attribuzioni di responsabilità per gli omicidi e a ritenere le azioni degli islamisti fenomeni slegati da logiche globali ma invece manifestazioni dell’ostilità della politica a base religiosa duramente repressa negli ultimi anni.