L’ultima volta che il colonnello è passato per questa città in mezzo al deserto era lo scorso mese di ottobre. Una visita di quelle consuete: farsi vedere nei possedimenti periferici del regno per immergersi nel tripudio popolare. Adesso i ritratti di Muammar Gheddafi, come rifiuti da distruggere col fuoco purificatore, si raccolgono a pezzi di carbone per le strade di Nalut, accanto al monumento dedicato al “Libro verde” che celebra il trionfo del gheddafismo, pure quello scorticato dalla rabbia del suo popolo. Mentre ovunque, su muri e case, sta incisa la parola più gridata
al-hureia, libertà.Per raggiungere Nalut occorre quasi una mezza giornata d’auto, partendo dalla costa tunisina di Zarzis, attraverso un deserto di pietra e sabbia. La frontiera si taglia come burro. Tranne che per quella tunisina, nessun controllo, nessun visto d’ingresso per entrare in Libia. Come clandestini. I funzionari della Jamahirya islamica di Libia sonnecchiano negli uffici e chiudono un occhio, mentre un folto gruppo di giornalisti stranieri irrompe nel territorio libero della nuova Libia.C’è una delegazione del Comitato di liberazione che attende la stampa internazionale. Loro si definiscono
al-towar, insorti, e sono giovani. Sulla strada incontriamo rari uomini armati di vecchi moschetti da caccia e qualche mitragliatore Kalashnikov. Naluf, 25mila abitanti, è nell’ovest della Libia. Un centinaio di chilometri a nord dei ricchi giacimenti petroliferi libici. Non porta segni di battaglia, bombardamenti o l’evidenza di scontri armati tra fazioni rivali. Le tracce della ribellione sono il nerofumo che ombreggia i resti delle finestre degli edifici governativi dati alle fiamme dagli insorti. Insorti che, tranne qualche sporadico caso di fuga verso la capitale, che dista 270 chilometri a nord, sono gli stessi ex poliziotti, gli ex militari, gli ex funzionari statali, e pure gli ex uomini che un tempo vivevano spargendo il terrore, gli agenti del mukabarat, la polizia segreta.Imat è il nome del giovane
towar che ci introduce in città. Tra un mese e mezzo si sarebbe dovuto sposare: «Questo non è il momento». Imat ha rinviato il suo programma d’amore per entrare in un tunnel che lo porta allo scontro diretto con il colonnello dittatore: «Tutti noi abbiamo paura di morire. Ma senza quel demonio sarà più bello vivere e sposarsi. Libertà, democrazia. Questo è un Paese ricco di petrolio, ma il suo popolo soffre la fame». Due terzi dei libici, su 7 milioni di abitanti, vivono con due dollari al giorno.La città è nel caos solo perché dopo dieci giorni senza carburante, oggi è arrivata una cisterna di benzina. L’ingorgo soffoca il centro cittadino. Dove nessuno sembra fare caso alle minacce ripetute dal colonnello: riprendersi tutta la Libia e punire i ribelli: «Sono solo parole», osserva un automobilista che si preoccupa del pieno per la sua Toyota.Incontriamo i responsabili del Comitato dei saggi che adesso governa Nalut. A capo c’è l’avvocato Sahban Abuseta. Racconta di come la città si sia sciolta come neve sotto il sole, senza colpo ferire. Dice che Gheddafi ha i giorni contati, ma ci tiene a dire che: «Respingiamo ogni possibile interferenza internazionale interna alla Libia da parte di forze armate straniere per cacciare il dittatore: non vogliamo diventare come l’Iraq». È ora di tornare, viaggiare di notte resta pericoloso. Nell’ultimo villaggio libico, un gruppo di ragazzini scaglia sassi contro le nostre auto. Imat spiega che «Qui tifano per Gheddafi».