mercoledì 3 giugno 2009
Il regime cerca di fare calare l'oblio sulla strage del 1989, ma la disillusione verso il Partito continua a crescere. Corruzione e mancanza di democrazia alimentano una società civile più consapevole e un'opposizione più organizzata.
COMMENTA E CONDIVIDI
La Pechino di oggi sembra tutta un’altra cosa rispetto alla città che vide il massacro di Tienan­men 20 anni fa. Grattacieli e alberghi modernissimi in acciaio, alluminio e vetro hanno sostituito le grigie co­struzioni in stile stalinista; biciclette e tricicli con cui i giovani trasportava­no i morti e i feriti sanguinanti sono quasi scomparsi, rimpiazzati da auto di lusso, pullman e metropolitana su­perveloce. Il Paese è cambiato: riven­dica il secondo posto nell’economia globale e se la crisi sta minando i suc­cessi degli ultimi due decenni, la Ci­na rimane comunque la speranza più forte per la ripresa mondiale. I giova­ni, a causa della censura e del silen­zio del regime, non sanno nemmeno che cosa sia accaduto 20 anni fa; gli studenti di oggi studiano e lottano per vincere la concorrenza nella corsa a un posto di lavoro, e hanno dimenti­cato Tienanmen. Ma proprio questa Cina modernissi­ma e internazionale, nel bene e nel male, è frutto di quel massacro. L’'ac­celerazione delle riforme', lanciata da Deng Xiaoping nel ’92, è stato il ten­tativo di far rinascere nella gente la stima per il Partito che aveva ucciso i loro figli. Il tentativo di rendere 'ric­chi e gloriosi' i cinesi doveva servire da sedativo, così che il benessere can­cellasse il ricordo di quella notte di sangue e il popolo tornasse a onora­re l’imperatore garante di stabilità e consumismo. Deng e Jiang Zemin so­no arrivati perfino a giustificare il mas­sacro come «un male minore», il prez­zo pagato per garantire la «stabilità» e raggiungere lo sviluppo che ne è se­guito. Ma, all’indomani di Tienanmen, le a­desioni al Partito sono crollate fino al 70% e la gente ha compreso che i 'li­beratori' dall’invasione giapponese e i 'timonieri' dell’unità e delle rifor­me sono soltanto un’oligarchia che domina il popolo a proprio vantag­gio. La disillusione verso il regime è andata crescendo. Mentre i leader at­tuali predicano la «società armonio­sa », le dissonanze divengono insoste­nibili: il divario fra ricchi e poveri (un esercito di circa 900 milioni) ha rag­giunto livelli da Terzo mondo; i segre­tari di Partito e i capi-villaggio depre­dano terre e case di contadini per rivenderle e operare speculazioni edi­lizie; i migranti che hanno fatto bella la Pechino delle Olimpiadi non hanno salario, né sanità, né istruzione per i propri figli; lo sviluppo selvaggio di questi 20 anni ha reso la Cina il Paese più inquinato della Terra, dove ogni anno muoiono 400mila persone per malattie respiratorie. La nazione di oggi è frutto di quanto il massacro ha fermato. Al Partito che aveva operato le 4 modernizzazioni e­conomiche, i giovani chiedevano la 'quinta modernizzazione', la demo­crazia, senza di cui la società sarebbe stata ingoiata dalla corruzione e dal­l’ingiustizia. I continui scandali alimentari (il latte alla melamina), quelli finanziari che coinvolgono pezzi grossi del Partito (a Shanghai, Xiamen, Guangzhou...), quelli delle scuole del Sichuan, crolla­te nel terremoto come 'budini di to­fu' uccidendo 8mila bambini, mo­strano che la Cina di oggi è ancora più corrotta di quella dell’89 e continua a produrre massacri. Nonostante ciò, il governo di Pechino mette a tacere gli scandali, annacqua le sentenze e vie­ta alle vittime di cercare giustizia per vie legali. La Cina di oggi, senza democrazia né libertà di parola, è il frutto incompiu­to del movimento di Tienanmen. Ma in questi 20 anni quel movimento si è diffuso in modo capillare, generando una società civile più consapevole: at­tivisti per i diritti umani, avvocati che difendono i poveri, giornalisti e inter­nauti che diffondo l’informazione ne­gata. La massa di operai sfruttati, di contadini defraudati, di famiglie av­velenate genera ogni giorno un fiume di petizioni, dimostrazioni e richieste che mettono in crisi la stessa capacità di governo del Partito. Secondo il mi­nistero della Sicurezza, vi sono alme­no 87mila «incidenti di massa» (scon­tri fra polizia e manifestanti) ogni an­no; le cause di lavoro – per salari non pagati o licenziamenti – nel 2008 so­no state un milione. Davanti alle richieste della società ci­vile, il governo-Partito si trova, come ai tempi di Tienanmen, davanti a un crocevia: deve decidere se seguire un sentiero di dialogo e democrazia o la via della repressione. Nessuno degli attivisti cerca oggi di rovesciare il si­stema o di condannare il Partito co­munista: chiedono giustizia e dialogo all’interno della risicata cornice lega­le disponibile. Molti di coloro che sol­lecitano le riforme sono membri del Partito e personalità dell’intellighen­zia statale. Eppure, la risposta del re­gime è la stessa di 20 anni fa: silenzio, arresti, divieti di associazione e di pub­blicazione via Internet o sui giornali di riflessioni su scandali, corruzione e democrazia. Nessuno sa fin quando potrà durare questo contenimento fatto di controlli polizieschi e militari. Ma certo un con­fronto aperto sul massacro di 20 anni fa e il riconoscimento delle colpe aiu­terebbe alla riconciliazione. Purtrop­po, la Cina sembra dirigersi in modo pericolosissimo verso una ripetizione amplificata di quel massacro. Vale anche la pena mettere in luce il legame fra movimento democratico e libertà religiosa. Nei primi anni dopo l’89, il braccio di ferro fra i dissidenti e il Partito è rimasto troppe volte a li­vello di rivendicazione economica o di libertà individuale. Ma ormai in Ci­na si diffonde sempre più una cultu­ra che mette al centro la persona e i suoi diritti inalienabili, rispettando il potere dello Stato, ma criticando la sua dittatura autoritaria. Ciò è avvenuto 'grazie' a Tienanmen: diversi dissi­denti, espulsi o imprigionati, hanno avuto contatto con comunità cristia­ne. Personalità come Gao Zhisheng, Han Dongfang, Hu Jia hanno scoper­to la fede quale base del valore asso­luto della persona, fondamento della difesa dei diritti umani. Questo inne­sto fra impegno civile e libertà religio­sa è uno dei frutti che fa più sperare per un futuro di giustizia.
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: