Il 7 ottobre 1950 i primi reparti dell’Esercito di liberazione cinese entravano nel Tibet orientale attraversando il fiume Jinsha. La resistenza del piccolo e male armato esercito tibetano fu strenua e costò 4-5mila morti, metà dei suoi effettivi. Alla caduta della città di Chamdo, il 27 ottobre, il governo tibetano optò per la resa e l’avvio di trattative. Nei mesi successivi, la crescente pressione militare e diplomatica spinsero a un Paese "pacificato" secondo le pretese di Pechino a un trattato (quello dei "Diciassette punti") ratificato a maggio 1951. I tibetani non lo riconobbero mai: nella sostanza asserviva il Tibet al potere politico e agli interessi dell’antico rivale imperiale. Ovvio chiedersi e, di rimando, chiedere alla leadership della diaspora tibetana qual è per essa il significato degli eventi di 60 anni fa. Non meraviglia che a essere scolpita nella memoria collettiva dei tibetani in esilio sia soprattutto il 10 marzo 1959, data che ricorda l’avvio della rivolta anticinese a Lhasa. Non è solo smemoratezza, ma è anche perché, sul piano formale, i fatti dell’ottobre 1950 furono conseguenza delle ultime fasi del conflitto tra i nazionalisti del Kuomintang, sconfitti sul piano militare eppure ancora attivi nelle regioni di confine, e il Partito comunista cinese. L’invasione del Tibet ne fu una conseguenza, associata anche al timore di Pechino per un interesse eccessivo di altre potenze e della vicina India su questo territorio d’importanza strategica. Quello che anche i tibetani non ignorano è che da queste mosse, come pure dai successivi passi verso l’annessione, derivò una serie di circostanze che portarono i tibetani alla rivolta e al massacro. Il tentativo di liberarsi della tutela cinese nel marzo del 1959 fu l’avvio di una persecuzione che fece 90mila vittime, chiuse i monasteri, deportò i monaci e avviò un processo di sinizzazione ancora in corso. A distanza di tanto tempo, si può dire che solo la fuga fortunosa del Dalai Lama tra le tormente di neve sugli alti passi himalayani ha consentito al Tibet di essere costantemente presente nella coscienza internazionale, senza per questo che siano mai state riconosciute formalmente le pretese di autonomia del suo popolo o l’esistenza del governo in esilio che lo rappresenta dalla cittadina indiana di Dharamsala.Una situazione che viene da lontano. Quell’ottobre di sessant’anni fa l’invasione del Tibet da parte delle forze armate cinesi fu non solo ignorata dalla comunità internazionale, ma passò quasi inosservata anche per i tibetani. Allora non c’erano media in grado d’informare su un territorio tanto esteso e le diplomazie mondiali erano tese a captare i venti di guerra in Corea, sugli Stretti di Formosa e in Indocina. Troppo misterioso, il Tibet, chiuso nella sua teocrazia e in un isolamento allo stesso tempo sdegnoso e opportunista per suscitare poco più di qualche sporadico interesse da parte britannica o sovietica davanti alle mire di una Cina nuova e comunista sì, ma impegnata a continuare la politica imperiale di dominio sulle regioni in cui riteneva di avere un qualche interesse. Oggi il grande Paese delle Nevi è diviso, attraversato da insofferenza e diseguaglianze, da un indipendentismo strisciante alimentato dalla mancata soddisfazione delle richieste di una vera autonomia. All’estero, centinaia di migliaia di tibetani vivono in esilio cercando tenacemente di mantenere, insieme alla propria identità, anche la memoria di una tragedia della storia. Cercando anche di contenere frustrazione e rabbia, sostanzialmente fedeli alla guida del Dalai Lama e alla sua continua ricerca di compromesso e di dialogo con Pechino. Una diaspora che raggiungerebbe le 220mila unità, conteggiando anche chi del "profugo" non ha la qualifica ufficiale. Secondo le statistiche ufficiali dell’Amministrazione centrale tibetana, i rifugiati che hanno ottenuto l’apposito certificato d’identità sono complessivamente 145.150. Di questi, 101mila circa sono in India, poco più di 16mila in Nepal, circa 2.000 in Bhutan. I restanti in un gran numero di Paesi, con le comunità più consistenti negli Stati Uniti, in Canada, nel Regno Unito, Svizzera, Norvegia, Francia, Taiwan e Australia.Il governo di Pechino, che ha sempre giustificato l’intervento armato come una mossa preventiva a tutela dei propri interessi e come una possibilità di portare al Tibet «progresso e benessere», non ne ha mai rimesso in discussione l’annessione. Al contrario, ha perseguito una "integrazione" rapida e devastante per una realtà in fondo fragile come quella tibetana. La politica della "porta aperta" a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso ha portato a una crescita esponenziale della popolazione locale con una massiccia immigrazione di etnia Han, ma anche della produzione industriale e dei redditi, gli uni e gli altri riesportati in buona parte verso la Cina. Lo sfruttamento delle materie prime locali è sempre più determinante nei piani energetici e produttivi del grande Paese asiatico e spiega lo sviluppo delle infrastrutture nella regione tibetana. Iniziative considerate dagli abitanti autoctoni atti di dominio – come dimostrano frequenti episodi di intolleranza repressi con durezza – soprattutto perché non supportate da autonomia e concreto benessere. Ancor meno possono bastare a quanti vivono in esilio ed assistono allo scempio ambientale e all’omologazione culturale in atto nella patria loro preclusa.