Non un’opinione su un caso di abusi sessuali da parte di un sacerdote, non una decisione di merito, non un passo avanti nella causa per danni intentata da un abitante dell’Oregon nei confronti della Santa Sede. Secondo Jeffrey Lena, l’avvocato che rappresenta il Vaticano negli Usa, il rifiuto della Corte suprema statunitense di esprimersi su una petizione della Santa Sede riporta semplicemente il caso a un grado inferiore, una corte d’appello federale in Oregon. Dove tutto resta ancora da dimostrare.«Ora l’intero caso si riduce a una domanda: il sacerdote in questione è un dipendente della Santa Sede? – spiega Lena ad
Avvenire –. Questo punto non è ancora stato preso in considerazione da alcun tribunale. Ed è l’unica teoria che rimane al ricorrente per dimostrare una qualche forma di responsabilità civile della Santa Sede nei casi di abusi ammessi da padre Andrew Ronan, religioso dell’ordine dei Servi di Maria». Le altre tesi presentate dal non meglio identificato «John Doe» (un nome generico usato per proteggere l’identità del querelante) sono infatti già state interamente respinte dalla stessa corte d’appello del nono circuito. «L’opinione della corte d’appello, cui il non esame della Corte suprema ci rimanda, fu comunque a nostro favore – continua Lena – abbiamo vinto quasi ogni punto: la Corte ha respinto la tesi di negligenza da parte della Santa Sede, come quelle di frode e di congiura avanzate dall’altra parte. Ed ogni altra teoria tranne una: che il prete è un dipendente della Santa Sede. L’unico piccolo punto al quale abbiamo deciso di appellarci alla Corte suprema è stato molto tecnico: l’interazione tra il diritto federale ed il diritto statale per quanto riguarda il cosiddetto "scope of employment", vale a dire la definizione del legame di dipendenza».E se questa ora non verrà provata, come l’avvocato del Vaticano è sicuro avverrà, il tribunale federale dell’Oregon non avrà alcuna giurisdizione su caso, vale a dire nessun potere di indire un processo contro la Santa Sede. La strategia legale della Santa Sede, dunque, non cambia. «Torniamo alla corte di prima istanza – aggiunge Lena – a dimostrare quello che tutti i documenti rivelano: che la Santa Sede, non ha mai tenuto un rapporto tipo da datore di lavoro con il prete. L’ente responsabile per padre Ronan era l’ordine dei Servi di Maria, l’unico responsabile dei suoi trasferimenti e a conoscenza della sua storia di abusi sessuali». Se Ronan è un dipendente della Santa Sede – aggiunge Lena – allora tutti i preti cattolici del mondo lo sono e non solo quelli impiegati direttamente in Vaticano, e questo non è chiaramente possibile. La questione dell’immunità di uno Stato sovrano di fronte ai tribunali americani, stabilita dalla legge, resta dunque intatta, e la decisione della Corte suprema di non occuparsi del caso non la cambia, né costituisce un precedente in merito. «Il modo in cui la Corte suprema decide di prendere in considerazione un caso non dipende dai suoi meriti – illustra Lena – ma dalla necessità di unificare le decisioni delle corti inferiori e di chiarire così un’interpretazione legale. Il nostro caso però era unico: non c’era diversità di sentenze da chiarire. Non ho dubbi che se la corte avesse preso in esame il caso si sarebbe pronunciata in nostro favore».Al di là dei termini legali del caso, resta poi quella che Lena chiama la «semplice innocenza dei fatti» che verte su un punto: la Santa Sede non è stata a conoscenza dell’esistenza di padre Ronan se non dopo gli abusi a lui imputati. Non sapeva dei suoi comportamenti sessuali e non avrebbe potuto fare alcunché in merito. La certezza di «essere nel giusto» continuerà dunque a guidare le azioni del 51enne Lena (californiano ma di nonni e moglie italiani, con alle spalle studi e docenze a Milano), quando, nei mesi a venire, si troverà a discutere la posizione del Vaticano in un tribunale di Portland. «Dopotutto – conclude – lo hanno detto anche i legali del ministero della Giustizia Usa: questo caso non ha merito».