In questi anni, allorché si parlava di Afghanistan e dell’impegno militare della Nato, si sono spesso citate, con buona dose d’approssimazione, le rovinose perdite subite dall’impero britannico nel XIX secolo, o quelle più recenti patite dai sovietici. Anche il famoso detto inglese «l’Afghanistan può essere invaso ma mai conquistato», è stato usato per spiegare le difficoltà odierne. Una frase a effetto, ma che in realtà non rende giustizia a un impegno quasi decennale, condiviso da buona parte della comunità internazionale. Gli eserciti, i tecnici civili e delle Ong di decine di Paesi non sono entrati in Afghanistan per assoggettarlo o conquistarlo; al contrario, in seguito agli eventi dell’11 settembre, per restituirlo a tutte le comunità etniche afghane, liberandolo dalla mortifera alleanza fra al-Qaeda e i talebani che lo dominava. È stato il più ambizioso progetto delle Nazioni Unite: far germinare e consolidare un governo democratico in un Paese devastato da decenni di lotta civile e dominato da capi clanico-tribali lontanissimi da quei principi. E tutto ciò, lo si voleva armonizzare con le tradizioni afghane e con la loro interpretazione, molto restrittiva, dell’islam.Alla vigilia delle elezioni presidenziali, che saranno quasi certamente rivinte dall’attuale presidente Hamid Karzai, dopo otto anni di sforzi, disillusioni, morti, aspre polemiche, quel progetto sembra un sogno infranto. Hegel diceva che i fatti sono la dura replica della storia alle idee. E dai fatti di questi anni bisogna partire per capire dove sta andando l’Afghanistan e quali sono oggi gli obiettivi minimi del sistema internazionale.L’aspetto più macroscopico delle difficoltà afghane è quello militare. Dopo la cacciata dei talebani alla fine del 2001, per troppi anni l’azione militare è rimasta divisa in due distinte operazioni: da una parte Enduring Freedom, gestita dagli americani, con l’obiettivo di trovare i capi di al-Qaeda, smantellarne la struttura e lottare contro i "resti" (come si definivano allora ottimisticamente) dei taleban; dall’altra, l’azione di Isaf (International Security Assistance Force) sotto il comando della Nato, con il compito di aiutare il nuovo governo nell’opera di ricostruzione e stabilizzazione. Entrambi gli obiettivi sono stati mancati. Gli Stati Uniti, distratti sempre più dalla disastrosa avventura in Iraq che ha via via assorbito uomini, mezzi e risorse, si sono affidati soprattutto all’arma aerea, iniziando quello stillicidio di "danni collaterali", ossia vittime civili dei bombardamenti, che ha contribuito non poco ad alienare le simpatie delle popolazioni rurali al confine con il Pakistan (ove si concentra l’attività dei taleban) e a diffondere sentimenti di vendetta tribale ampiamente sfruttati dalle milizie islamiste. La Nato si è trovata a gestire un’operazione estremamente complessa, con truppe provenienti da più di quaranta Paesi, di cui molti non facenti parte dell’Alleanza, con tutti i problemi logistici, organizzativi e d’intesa. Ma il vero veleno che ha minato i rapporti interni e ridotto le capacità operative sul terreno è stato quello delle limitazioni imposte dai governi nazionali all’Alleanza. In Afghanistan si sono così ritrovati contingenti che combattevano duramente nelle zone più calde (come britannici, canadesi, olandesi, australiani), altri con regole d’ingaggio più limitanti (come il nostro contingente, fino a poco tempo fa) e altri ancora che rifiutavano di essere coinvolti nelle operazioni militari vere e proprie.Con l’espansione dei compiti di Isaf, la ripresa delle attività dei taleban e, negli ultimi anni, l’assorbimento di molti militari Usa in questa missione, è emerso l’insufficiente numero di soldati schierati: pochi per controllare un Paese tanto complesso, tanto più che l’addestramento delle forze armate afghane richiedeva tempi più lunghi del previsto. Dato che quasi nessuno Stato era disposto a incrementare il proprio sforzo in modo significativo, anche la Nato si è affidata all’arma aerea (col conseguente stillicidio di vittime civili). Ma non avendo soldati a sufficienza, una volta ripulita un’area, la si affidava alle forza afghane, che non tardavano a perderla nuovamente. Una sorta di fatica di Sisifo che ha minato il morale di tanti governi e trasformato l’Afghanistan in una trappola da cui cercare di uscire con decoro. Se le forze della comunità internazionale hanno sostanzialmente mancato i loro obiettivi, parte della responsabilità è da attribuire al fallimento del governo afghano. Anche qui, le speranze iniziali erano probabilmente troppo ambiziose: si voleva riportare l’Afghanistan agli anni ’60, quelli del fragile tentativo costituzionale attuato dal re Zahir Shah (poi defenestrato dal cugino Daud con un’incruenta rivoluzione nel 1973). L’Afghanistan doveva (ri-)trovare l’unità, aprirsi alla democrazia pur mantenendo le tradizioni, mentre si provvedeva a ricostruire la sua devastata economia. L’uomo giusto per realizzare tutto ciò doveva essere Karzai. Peccato che in questo quadro non fossero state considerate troppe variabili negative. I signori della guerra e i capi tribali, innanzitutto, molti dei quali avevano aiutato la coalizione a sconfiggere i taleban. Una volta entrati a Kabul, ovviamente, hanno presentato il conto e sono stati inseriti nel governo nazionale. La loro presenza ha minato fin da subito le politiche per l’eliminazione delle milizie tribali, per la lotta alla corruzione, al narcotraffico e per razionalizzare l’opera di ricostruzione. Di fatto, questi personaggi rappresentavano proprio ciò che il governo cercava di eliminare. Come stupirsi dei fallimenti di Kabul? La pluralità etnica afghana ha poi imposto a Karzai un governo che rappresentasse tutte le comunità, proprio per rimarcare la distanza con i taleban, che vessavano tutti i gruppi non pashtun. Il risultato è stato un’amministrazione-monstre, pletorica e inefficiente. Oltre che corrotta: ogni gruppo, ogni capo tradizionale, ogni funzionario cercava di accaparrarsi parte della torta della ricostruzione, sia per arricchirsi personalmente, sia per redistribuirli al gruppo tribale.Un altro problema cruciale, ancora irrisolto, era quello dei rapporti con i taleban, espressione dell’etnia pashtun, da sempre il gruppo politicamente e militarmente dominante il Paese. Un Afghanistan che non includa al potere i pashtun è inimmaginabile; ma i tagiki, gli hazara, gli uzbeki e gli altri gruppi hanno preteso la diminuzione del loro potere, frenando la politica di riconciliazione che, soprattutto dopo il 2007, Karzai ha tentato con i capi taleban meno estremisti. Il declino di popolarità di Karzai e le incertezze internazionali non favoriscono del resto questi accordi: molti taleban si sentono sicuri di poter fiaccare l’Occidente, e organizzano un governo alternativo nelle aree sotto il loro controllo, mentre altri puntano a boicottare le elezioni presidenziali, con attacchi e con le truculente minacce di questi giorni, per indebolire ulteriormente Karzai e la volontà dei Paesi Nato di continuare a combattere in Afghanistan. Ecco un altro dilemma che l’Alleanza si trova ad affrontare: gli attacchi aerei hanno fatto troppi morti innocenti; ora sono state imposte regole più restrittive, e si pensa a una strategia che privilegi il buon governo nelle aree sotto controllo, limitando i tentativi di cacciare i taleban dalle province in cui sono dominanti. Ciò garantisce meglio la popolazione, ma infonde un pericoloso senso di sicurezza e di vittoria agli islamisti.Oggi, riposti i grandi progetti, si spera solo di trovare un assetto accettabile, una exit strategy che consenta di camuffare la delusione. Sarebbe illusorio aspettarsi troppo dalle elezioni: il risultato appare scontato, ma in ogni caso, l’Afghanistan avrà bisogno ancora per molti anni del nostro impegno.