giovedì 22 settembre 2011
Crisi umanitarie e terrore hanno fermato il Paese a 20 anni fa. Secondo il rapporto di due istituti statunitensi  il Corno d’Africa «rappresenta la peggiore combinazione di indigenza, conflitti, siccità e carestia» a cui si aggiunge il fenomeno dei pirati.
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Attentati suicidi sofisticati e rapimenti di occidentali, che spesso vengono uccisi. Secondo gli Stati Uniti, il terrorismo nell’Africa subsahariana ha tre nomi: Al-Qaeda nel Maghreb islamico (Aqmi), Boko Haram in Nigeria e al-Shabaab in Somalia. «Hanno dimostrato molto chiaramente di voler colpire gli occidentali e gli americani in particolare», afferma il generale Carter Ham, a capo dell’Africom, il centro di comando dell’esercito statunitense per il continente africano di base a Stoccarda in Germania.«Non sono sicuro – ha aggiunto – delle capacità di questi gruppi, ma sono sicuro di quali siano i loro intenti». Aqmi, nato in Algeria, ha recentemente ucciso e rapito diversi occidentali in Paesi come Mauritania, Mali e Niger. Boko Haram, una setta islamica proveniente dal Nord della Nigeria, ha rivendicato l’attentato suicida avvenuto lo scorso agosto nella capitale nigeriana Abuja contro la sede delle Nazioni Unite. In Somalia, invece, i militanti di al-Shabaab hanno rivendicato gli attentati suicidi in Uganda, e continuano la loro guerriglia contro il fragile governo somalo sostenuto dagli «infedeli» della comunità internazionale. La destabilizzazione dell’Africa sub-sahariana da parte di gruppi terroristici è una minaccia che, dagli anni Novanta (con le esplosioni nelle ambasciate americane in Kenya e Tanzania), è sfociata nella peggiore crisi umanitaria al mondo: quella della Somalia. Con l’inizio del conflitto civile somalo nel 1991, si è passati dagli scontri tra i signori della guerra ai quelli dei ribelli qaedisti di al-Shabaab contro l’esercito somalo sostenuto dalle truppe dell’Unione Africana (Amisom). Un guerra che in vent’anni, secondo il rapporto della “One earth future foundation” e del “Center for american progress”, intitolato «Il costo del fallimento in Somalia», ha presentato il conto di 55 miliardi di dollari. Bloccando di fatto la crescita del Paese al livello di vent’anni fa.«La crisi somala per gli operatori umanitari rappresenta la peggiore combinazione di povertà, guerra, siccità e carestia – afferma lo studio – a cui dobbiamo aggiungere il crescente fenomeno della pirateria e la ribellione islamica. Agli inizi degli anni Novanta gli scontri tra i signori della guerra avevano provocato 300mila vittime somale – continua la relazione –, ora sono più di 400mila, e si teme che con l’aumento di movimenti islamici nella Somalia meridionale, il Paese diventi una base sicura per al-Qaeda».I due istituti, elaborando dati delle Nazioni Unite, stimano che la comunità internazionale, inclusa la diaspora somala, abbiano raccolto 55,3 miliardi di dollari per rispondere alla crisi della Somalia dal ’91 ad oggi. «Tra i costi maggiori – elenca il rapporto – ci sono 13 miliardi per gli aiuti umanitari, 11 dalle rimesse dall’estero, 7,3 per le operazioni di peacekeeping e diplomazia, 22 per la pirateria, e 2 miliardi derivanti da crimini di vario genere».Nel documento la politica statunitense è pesantemente criticata per aver sostenuto «a dispetto di una diplomazia sensibile» prima il regime di Siad Barre negli anni Ottanta e poi la «disastrosa» invasione della Somalia da parte dell’Etiopia nel 2006.
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