Morire per Caracas? Probabilmente no, nessuno è disposto a tanto. Ma sullo sfondo del caos venezuelano si muovono tre grandi player, la Cina, la Federazione Russa e gli Stati Uniti, ciascuno con strategie e modalità differenti. L’endorsement di Washington a Juan Guaidó – seguito rapidamente da Argentina e Brasile e con varie sfumature e ambiguità dalle democrazie occidentali – non si presta ad equivoci di sorta: il “regime change” è l’obbiettivo di Donald Trump. Ma Nicolás Maduro vanta un solido alleato nella Russia di Vladimir Putin e l’appoggio della Turchia di Erdogan, della Siria di Bashar al-Assad, dell’Iran, degli etnocaudillos come il boliviano Evo Morales, dell’Uruguay e, ovviamente, di Cuba, oltre a qualche improvvido simpatizzante come il messicano López Obrador.
Quanto alla Cina, formalmente persegue una politica di non ingerenza negli affari interni di un Paese sovrano, il che deve valere anche per il Tibet, Taiwan, il Mar Cinese meridionale. Ma soprattutto per Pechino il problema venezuelano è eminentemente una questione finanziaria: negli ultimi dieci anni i cinesi hanno prestato a Caracas oltre 60 miliardi di dollari in cambio di forti esportazioni di greggio (un milione di barili al giorno a prezzi stracciati) e partecipazioni strategiche nella compagnia petrolifera Sinovensa. Di fatto oggi la Cina è il primo creditore mondiale di Maduro, il cui debito estero nei confronti di Pechino ammonta ormai a 26 miliardi di dollari: dovesse cadere l’erede politico di Hugo Chávez, nessuno – la Libia insegna – può garantire che gli accordi petroliferi e le partecipazioni cinesi sarebbero confermate. Fra l’endorsement americano e la non ingerenza cinese si frappone l’interventismo di Putin. Lo schema assomiglia da vicino a quello siriano: là Obama voleva far cadere Assad istituendo un governo filoamericano, qua Trump predispone la possibilità (remota, peraltro) di un intervento armato per rovesciare il governo chávista. Allo stesso modo in cui Putin minaccia di approntare (o forse già lo sta facendo) una testa di ponte militare nello specchio di mare a nord del Venezuela (anche qui si vocifera di un mini-esercito di anonimi “omini verdi”, gli stessi visti in Crimea nel 2014).
Come facilmente s’intuisce, Caracas è il teatro nel quale si giocano per interposta persona gli appetiti di Washington, Pechino e Mosca. Le prime due hanno molto da perdere, sia in termini geopolitici che commerciali. La terza ha quasi tutto da guadagnare. E qualcosa a Putin – una sorta di protettorato riconosciuto sui bolivarismi del continente latinoamericano – lo si dovrà obbligatoriamente concedere. Così è la regola di questa Guerra fredda 2.0, ma potremmo anche chiamarla la Grande Neocolonizzazione, a spese – occorre dirlo? – dei tanti vasi di coccio su cui si gioca questo risiko mondiale fra le grandi potenze. In fondo, anche questo è un film già visto. Ma i «buoni», dove sono?