martedì 17 luglio 2012
Una giornata con i nostri militari della base "La Marmora" a Shindand, a ridosso del confine iraniano tra sabbia, mine e la minaccia degli agguati taleban. Reportage di Claudio Monici
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​Matteo, Giovanni e Gianmarco si sono svegliati che il sole era ancora una capocchia di spillo sulla linea dell’orizzonte. Si sono fatti la barba come al campeggio, hanno indossato le uniformi mimetiche con i gradi di caporal maggiore scelto, spazzolandole dalla polvere che qui avvolge tutto come un velo da sposa, hanno riempito le giberne dei caricatori e hanno controllato le armi. Adesso, all’ombra del "Lince", mezzo corazzato dell’esercito italiano con un elevato livello di protezione contro le armi leggere, gli ordigni esplosivi e le mine, aspettano solo un ordine.Ci vorrebbe un altro caffè, fatto con la moka portata dall’Italia, ma non c’è tempo. Scatta il: «Tutti sui mezzi».Si parte per la missione di pattugliamento e sorveglianza. Routine? Forse. Ma, proprio l’altro giorno, una pattuglia formata da personale dell’Aeronautica militare che garantisce la difesa esterna dell’aeroporto di Herat è finita su un ordigno esplosivo. Tanto spavento, il "Lince" danneggiato, i soldati illesi. E non è la prima volta.Abbiamo tutto quello che ci può servire, scorte e viveri, anche per più giorni di missione; qualsiasi cosa capiti, bisogna essere autonomi e sicuri: assieme alle munizioni occorre caricare anche una buona quantità di acqua, quando alle dieci del mattino il termometro già punta ai 47 gradi.La sveglia suona presto nelle tende ammantate di sabbia del deserto della base operativa avanzata "La Marmora" di Shindand, una delle più strategiche basi aeroportuali, già ai tempi dell’occupazione sovietica, a ridosso del confine con l’Iran, a 170 chilometri circa a sud di Herat, dove l’Italia detiene il comando di un contingente nazionale interforze. A metà strada con Adraskan, la località dell’ultimo attentato mortale degli insorti afghani contro un campo di addestramento italiano in cui, a fine giugno, ha trovato la morte il carabiniere scelto Manuele Braj. Il cinquantunesimo caduto italiano della missione Isaf (International security assistance force) che dal 2003, sotto il comando della Nato, è presente in Afghanistan, per il «consolidamento, in stabilità e sicurezza, delle istituzioni locali».Sono già dieci anni che circa 4mila soldati italiani delle quattro Armi turnano in missione nel Paese che fu dei taleban, e mentre si fanno insistenti le voci di un prossimo ritiro delle forze Nato, indicato per il 2014, non tutti pensano che, quando verrà dichiarato il "missione compiuta", i problemi dell’Afghanistan saranno stati risolti. La preoccupazione è che, una volta partiti i contingenti occidentali, i taleban scatenino tutto il loro orgoglio per riprendersi Kabul.Un’ipotesi che richiama la storia di quando l’Armata rossa nel 1989 si ritirò dall’Afghanistan, incalzata da una guerriglia mujaeddin che subito dopo non perse tempo a darsele di santa ragione, scatenando una nuova guerra civile tale da gettare il Paese nel caos. Ingredienti che aprirono il varco ai "turbanti neri". Solo che oggi, al condimento di allora, si aggiunge l’alto livello di corruzione che contamina i palazzi del potere e la coltivazione del papavero da oppio, unica risorsa per i contadini afghani e sistema di lucro per autofinanziare la guerriglia.Per i caporal maggiori Matteo, Giovanni e Gianmarco, militari del Terzo plotone prima compagnia di manovra reggimento fanteria "Torino", la missione di oggi è di routine: pattugliare le strade, i villaggi, assistere i militari afghani nelle operazioni di controllo del territorio che dal 2014 dipenderanno solo da loro, organizzare i posti di blocco. Matteo, Giovanni e Gianmarco sono consapevoli dei rischi cui vanno incontro, ogni volta che devono uscire dal fortino "La Marmora". Ma nemmeno la base è una garanzia di sicurezza, quando nel quadrato fortificato di Shindand, in qualsiasi momento, può scattare l’allarme di <+corsivo>rocket attack<+tondo>. Alla prima sirena bisogna correre dentro il bunker più vicino. Ma spesso è la deflagrazione del razzo ad anticipare l’allarme. L’ultimo attacco è avvenuto nel pieno della notte, qualche giorno fa. Per fortuna senza conseguenze gravi.«Scusi, maggiore, in caso di attivazione, la cassetta per l’Mg sta sotto il sedile». Parole pronunciate senza emozione, ma con il dovere di scambiarsi informazioni utili. Parole fredde, come il clangore metallico del mitragliatore in torretta che viene caricato da qualcuno. Tutti a bordo del "Lince" devono essere pronti, in caso di necessità. E dunque dobbiamo sapere dove stanno le munizioni di riserva. Soprattutto se l’uomo addetto alla mitragliatrice in torretta dovesse rimanere ferito e cadere incosciente, dopo un eventuale contatto col nemico e l’"attivazione" del mitragliatore Mg. Il mitragliere ferito va tirato dentro l’abitacolo e qualcun altro prenderà il suo posto.La soglia di sicurezza, il grado di rischio di una missione di pattugliamento e controllo del perimetro esterno di una base come quella di Shindand è valutato di volta in volta. L’Afghanistan rimane sempre terreno fertile per attentati kamikaze, imboscate, attentati terroristici mediante la disseminazione di Ied (ordigni esplosivi improvvisati), lancio di razzi contro le basi, a cui dobbiamo aggiungere i campi minati, memoria ancora omicida lasciata dall’occupazione sovietica e di cui non si conoscono le mappe; e poi, come se non bastasse, ci sono le attività criminali connesse al fenomeno del traffico dell’oppio, che dalla provincia di Herat si introduce nel vicino Iran.«Il grado di rischio dipende da diversi fattori – spiega un ufficiale dell’esercito. – Il pericolo è comunque da considerarsi consistente. Le minacce principali sono gli ordigni improvvisati nascosti, poi i tiri d’arma da fuoco e il lancio di razzi anticarro. È il minimo che ci può capitare, quando i nostri mezzi sono in giro».Sarà l’abitudine, oppure il pensare e il volere credere che no, oggi non può toccare a te. Ma il coraggio deve venire per forza, anche quando di mestiere fai il soldato e tutto attorno a te, oltre il filo spinato e le alte protezioni riempite di sabbia e pietre, si estende un territorio ostile, di insidie e pericoli, che ogni giorno dovrai andare a perlustrare per guadagnare palmo a palmo.La missione di Matteo, Giovanni e Gianmarco – ma pure Carmela, Elena e Maria, perché anche le donne soldato svolgono il loro compito in Afghanistan – s’è conclusa senza particolari avvenimenti. La solita routine, con la divisa che si è riempita di sabbia e di nuovo da spazzolare. Sarà la sorte o la fortuna, ma dopo qualche giorno, a Shindand, un mezzo di militari italiani ha urtato un ordigno esplosivo nascosto. Solo danni al mezzo, nessun ferito tra i soldati a bordo. Soldati italiani che non hanno facce da guerriero... anche se può accadere d’incontrare qualche Rambo o chi indossi magliette con il teschio e la rosa tra i denti, anacronistica nostalgia della Repubblica sociale di Salò e della X-Mas. Soldati che conoscono il loro dovere e sono consapevoli dei rischi cui vanno incontro, molto più di quanto possiamo sapere noi che stiamo a casa. Ma è stato con un bel sorriso che hanno aperto la porta del loro "Lince" quando hanno accolto l’ospite civile a bordo, quasi a voler scongiurare: «No, oggi non può succedere».
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