È la guerra delle rotte, quelle aeree di accesso alla Siria. Dopo il blocco martedì ai jet russi da parte della Bulgaria, il Cremlino sembra volere sfidare Washington. Prima l’annuncio che Mosca avrebbe usato «rotte alternative» per consegnare aiuti umanitari alla Siria scavalcando in questo modo la Bulgaria. Poi la precisazione dell’ambasciata russa a Teheran: «Sono state inviate diverse richieste e la parte iraniana le ha approvate tutte», faceva sapere l’addetto stampa. Una autorizzazione che «riguarda solo la fornitura di aiuti umanitari». Una replica al ministro degli Esteri bulgaro Daniel Mitov che alla Russia aveva dato il permesso di sorvolo verso la Siria solo se Mosca avesse consentito di «farci ispezionare i voli in un aeroporto bulgaro». La Grecia, invece, ha smentito di avere chiuso le rotte alla Russia, precisando di star studiando la richiesta americana. Ma il braccio di ferro internazionale attorno a Damasco è a dir poco evidente. La giornata si era aperta con l’ammissione di Mosca, la prima dopo giorni di indiscrezioni, che consulenti militari russi sono presenti al momento in Siria. Una nota del ministero degli Esteri precisava che i suoi consulenti stavano supervisionando la consegna di materiale bellico al regime di Damasco, materiale che – precisava Mosca – serve «contro la minaccia terroristica, che ha raggiunto una dimensione senza precedenti in Siria e nel vicino Iraq». La Russia, aggiungeva un portavoce, «non ha mai fatto segreto della sua cooperazione tecnicomilitare con la Siria», ma non ha truppe coinvolte nel conflitto siriano. Quasi un botta e risposta tra Mosca e Washington: pochi minuti dopo due fonti ufficiali americane, sotto condizione di anonimato, accusavano la Russia di aver inviato nelle ultime 24 ore in Siria due navi per il trasporto di carri armati e mezzo aereo. Inoltre sarebbe stato schierato anche un piccolo contingente di fanteria navale. «Profondamente preoccupati» gli Stati Uniti anche perché le reali intenzioni di Mosca rimangono poco chiare. Una ipotesi che circola a Washington è che la Russia stia preparando un campo di volo nei pressi di Latakia, una roccaforte del presidente siriano Bashar al-Assad. Uno scenario sempre più complicato e frammentato. Dopo lo scambio di stilettate, una telefonata del ministro degli Esteri russo Lavrov al segretario di Stato Usa Kerry serviva a stemperare la tensione e a ribadire la necessità di «consolidare la risposta ai gruppi terroristici che hanno occupato una considerevole parte della Siria». La soluzione del conflitto siriano, si legge sul sito web del ministero degli Esteri russo, passa attraverso un dialogo tra il governo siriano e l’opposizione, nel rispetto delle conclusioni della prima conferenza di Ginevra. Manovre occulte sul terreno, ma tenendo aperta la porta alla diplomazia. Intanto anche l’Australia, dopo Francia e Gran Bretagna, si vuole aggiungere alla Coalizione internazionale partecipando ai raid aerei contro Is anche in Siria, dopo che dallo scorso anno martella le postazioni dello Stato Islamico in Iraq. Lo ha annunciato il premier Tony Abbott, aggiungendo, dopo le polemiche per la scarsa generosità di Canberra, che l’Australia accoglierà altri 12.000 profughi siriani in aggiunta ai 13.750 rifugiati che già sono ospitati nel Paese. Un attivismo che coinvolge pure l’Europa: mentre la Francia con la sua seconda ispezione sulla Siria prepara l’entrata in azione dei caccia Rafale, David Cameron dichiarava che per rimuovere il presidente siriano Bashar al-Assad e sconfiggere lo Stato islamico sarà necessaria «una potente forza militare». Il premier inglese ha ribadito la convinzione che occorra un maggiore coinvolgimento militare britannico in Siria. «Assad deve lasciare il potere» e a questo scopo non è necessario «solo spendere soldi, aiuti o diplomazia. Ciò che è richiesto è una potente forza militare». Molto più prudente il ministro degli Esteri italiano Paolo Getiloni: «Oltre al contenimento», in Siria «è necessaria una reazione politica, con il superamento dell’attuale regime attraverso una transizione che non crei di nuovo quel vuoto di potere che in altri contesti ha causato tragedie». Un orrore che, anche nel vicino Iraq, sembra non avere fine. Il Partito democratico del Kurdistan ha denunciato che miliziani dell’Is hanno rapito 127 bambini a Mosul. Secondo il Pdk gli ostaggi, che hanno tra gli 11 e i 15 anni, sono stati trasferiti in campi d’addestramento perché imparino le tecniche di terrorismo.