sabato 27 aprile 2013
​Il regime di Assad accusa i ribelli e al-Qaeda: le hanno usate loro. L'Onu chiede di poter condurre un'indagine indipendente sulle sostante proibite. Obama vuole "fatti inconfutabili" prima di prendere decisioni. (Lucia Capuzzi)
ANALISI Il grande "segreto": l'arsenale chimico siriano (Francesco Palmas)
LE VIOLENZE I due vescovi ancora ostaggio dei rapitori (Federica Zoja)
EDITORIALI Incubi e calcoli di Giorgio Ferrari
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La «linea rossa» è stata effettivamente oltrepassata. Il gas Sarin è stato sparso sui fronti siriani almeno in un’occasione: il 19 marzo scorso, in una delle tante battaglie di Aleppo. Quest’ultima versione sul controverso dossier sulle armi chimiche, arrivata ieri, non diverge poi tanto da quella formulata due giorni fa dal capo del Pentagono, Chuck Hagel. Eppure, stavolta, proviene dallo schieramento opposto. Ovvero dal regime di Damasco. Il ministro dell’Informazione, Omran Ahid al-Zoubi, non solo non ha negato l’impiego di gas nervino nel conflitto in corso nel suo Paese. (un’implicita ammissione era già stata fatta poco dopo i fatti di marzo). Ma ora l’ha perfino circostanziato, aggiungendo la data e i dettagli della “battaglia sporca”. L’unica differenza – sostanziale – è la responsabilità. In altri termini, chi – utilizzando un’ormai diffusa metafora americana – ha premuto il grilletto della “smoking gun” (la pistola fumante, sinonimo di prova certa), innescando il “casus belli”. Per il governo di Bashar al-Assad non ci sono dubbi: sono stati i ribelli legati ad al-Qaeda che hanno fatto entrare un ordigno al Sarin dal confine turco. «Il missile è arrivato da un posto controllato dai terroristi, non lontano dal territorio turco. Si potrebbe presumere che le armi (chimiche, <+corsivo>ndr<+tondo>) siano state portate dalla Turchia», ha affermato al-Zoubi. Mentre Damasco incalza, sono le potenze occidentali ad arretrare. Gli Stati Uniti hanno ripetuto quanto già detto due giorni fa, all’indomani della pubblicazione del dossier-Hagel. «Stiamo lavorando per giungere ad un giudizio definitivo», ha dichiarato il portavoce della Casa Bianca, Jay Carney dato che il presidente Barack Obama vuole «fatti inconfutabili» prima di prendere una decisione. E, in ogni caso, l’intervento armato «non è l’unica risposta possibile», ha sottolineato Carney. La Gran Bretagna – che in un primo tempo aveva dato per certo l’impiego di armi chimiche da parte del regime almeno in tre occasioni: Khan al-Assal, Homs e Damasco – ieri ha fatto una parziale marcia indietro. Il presidente David Cameron ha definito le prove «limitate» seppur «convincenti». In ogni caso, si è affrettato a ribadire che l’uso di sostanze proibite non dovrebbe portare a una risposta armata. «Non è quello che voglio – ha detto –. Possiamo, però, accrescere le pressioni». Ancora più cauta l’Unione Europea. L’Alto rappresentante per la politica estera, Catherine Ashton, ha parlato di indizi «non definitivi» e di una situazione «non chiara». Il compito di indagare, ribadiscono da Bruxelles, spetta alle Nazioni Unite. Dal canto suo, il Segretario generale Ban Ki-moon, ha sollecitato Damasco a consentire l’ingresso di una missione di indagine Onu. Richiesta respinta al mittente. Il governo preferisce «esperti russi», dato il legame di fiducia che lega Mosca a Damasco. Unica voce fuori dal coro quella israeliana, che ha di nuovo esortato la comunità internazionale «a prendere il controllo» degli arsenali di Assad. Tra Siria e comunità internazionale sembra in atto, dunque, un “gioco delle parti”. Su cui aleggia lo spettro iracheno del 2003 e della “bufala” delle armi chimiche di Saddam. Sia l’Occidente – Stati Uniti in testa – sia Assad lo sanno fin troppo bene. E nessuno vuole compiere un passo falso in quella che ormai è diventata una partita estrema. In cui il Sarin può essere un’arma a doppio taglio. A cui i contendenti non sono disposti a rinunciare. Ma nemmeno ad affondarla nel corpo dell’avversario. Il rischio di scatenare una “reazione a catena regionale” – coinvolgendo tutti i Paesi vicini fino all’Iran – spaventa tutti.
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