«S iamo dinanzi a una possibile rottura, la dialettica sulla quale per trent’anni si è svolto il confronto all’interno del regime è ormai degenerata ». Per Bijan Zarmandili, scrittore ed esperto di Iran, «a questo punto ogni cosa può succedere ». Domina l’incertezza e la piega degli eventi, spiega l’analista, è impossibile da decifrare. Troppi fattori sono ormai in campo. «Ma – prosegue – di sicuro stiamo assistendo a un cambio in atto della tattica dell’opposizione».
Cosa è cambiato nella società iraniana e nelle motivazioni degli oppositori rispetto a giugno quando per la prima volta il blocco riformista scese in piazza? Finora la resistenza è stata passiva. Ora invece è attiva. Prima bastava far vedere che l’opposizione era viva e protestava. Oggi invece prende l’iniziativa. Sappiamo che domenica interi quartieri di Teheran sono sfuggiti al controllo del regime. Questo mostra un cambiamento tattico. Ma c’è pure una svolta strategica. O almeno si avvertono i sintomi di un mutamento più ampio.
Quali ad esempio? In giugno e per tutta l’estate gli oppositori invocavano il ritorno al voto e denunciavano i brogli in quelle elezioni truffaldine. Domenica la folla cantava slogan contro Ahmadinejad e contro la guida suprema ayatollah Khamenei. E questo è un bel salto di qualità.
Che pone la sfida su un piano diverso. Cosa chiede oggi l’opposizione? La domanda reale è: fino a quando il movimento resterà entro i limiti del sistema? Un conto è chiedere maggior giustizia sociale o democrazia, un altro invece invocare un cambio del sistema che regge la Repubblica islamica.
L’opposizione ha anche diverse anime e forse non tutte condividono lo stesso obiettivo. Chi è più vicino allo spirito dei manifestanti? Difficile rispondere. Ma è evidente che la rivolta di piazza pone anche il quesito della leadership. Ci sono diversi personaggi, da Rafsanjani a Khatami a Mussavi che sono rappresentati da decine di migliaia di dimostranti. Bisogna vedere fino a quando la folla li seguirà. La protesta potrebbe anche prendere una deriva anti- sistema che i leader non vogliono.
Ci sono segnali in tale direzione? Più che altro che sono segnali che il senso della protesta è mutato e le sue dimensioni sono sempre più vaste. Scontri e raduni ci sono stati in tutte le città del Paese. E poi c’è un elemento singolare. A scendere in piazza a Teheran non sono stati gli abitanti dei quartieri settentrionali, quelli della buona borghesia. Anzi la protesta è nata domenica nel sud. È il popolo iraniano a protestare non le élite o gli studenti come in passato.
Non significa però che il popolo voglia abbandonare la Repubblica islamica e i suoi pilastri religiosi e ideologici... No. Trent’anni fa ci fu una Rivoluzione non un colpo di stato. C’era consenso. E il regime iraniano ha bisogno di consenso per sostenersi. In questi 30 anni questo schema si è eroso. Oggi la debolezza del regime è manifestata non tanto dalla crisi politica quanto dalla mancanza di autorevolezza e di fiducia che la gente ripone nell’ayatollah. Ma questo indica che la gente si ribella a quello che il sistema è divenuto, non al sistema in sè. Non dimentichiamo che «l’onda verde» rimanda pur sempre ai colori dell’islam.
( A.S.)