giovedì 21 maggio 2009
A 15 anni dalla morte del leader Ogoni da martedì a New York al via il processo. La compagnia avrebbe «favorito» l’impiccagione dello scrittore ai tempi del regime di Abacha. Ma la multinazionale nega le accuse.
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Prima o poi la Storia torna a chiedere conto delle ingiustizie che l’hanno attraversata, imponendo di far luce su eventuali omissioni e responsabilità. Toccherà agli uomini, evidentemente, riuscire a dimostrare sopraffazioni e abusi. Ma questa volta sarà il fatto stesso di celebrare un processo, più che il risultato delle sentenze, a rivestire significato per coloro che a lungo hanno sofferto e in silenzio aspettato, senza mai dimenticare. Martedì prossimo, in un’aula della corte federale di New York, un popolo intero scoprirà che l’attesa non è stata vana. E che per Ken Saro-Wiwa, l’uomo che per quel popolo lottò sacrificando la vita, la giustizia è tornata a chiedersi un perché. Ci sarà suo figlio, in quell’aula, colui che più di tutti, in questi 14 anni dall’impiccagione del padre e di suoi 8 compagni, ha inseguito la verità. Di fronte, alla sbarra, la Royal Dutch Shell, uno dei quattro giganti planetari nel comparto del petrolio e del gas naturale. Ma come si è arrivati fin qui? Cosa c’entra la multinazionale anglo-olandese con la morte dello scrittore nigeriano, leader non violento dell’etnia Ogoni? È quel che proverà a chiarire il tribunale di New York, la cui giurisdizione va rintracciata nell’Alien tort statute, la legge Usa che consente agli stranieri di denunciare violazioni di diritti umani commesse in altri Paesi.Bisogna tornare a quei primi anni Novanta e all’impegno civile di Saro-Wiwa per inquadrare la vicenda. Scrittore e giornalista, in quel periodo Saro-Wiwa si dedica alla difesa dei diritti umani e della causa ambientalista. Già da tempo le multinazionali avevano scoperto le ricchezze del Delta del Niger, la regione meridionale della Nigeria che galleggia su petrolio e gas naturale. Gli Ogoni, come le altre etnie dell’area, da quello sfruttamento delle risorse locali non traggono alcun beneficio. Sono anzi proprio loro a subire la devastazione causata dal pompaggio. Le nubi tossiche diventano una presenza inquietante, mentre gli agenti chimici (molti cancerogeni come il benzene) invadono le falde acquifere e i campi, provocando gravi malattie. Senza contare le conseguenze sull’ecosistema causate dall’attraversamento delle condutture.I generali all’epoca al potere non esitano a reprimere brutalmente il dissenso o le richieste di autonomia. Coi suoi scritti, Saro-Wiwa diventa così anche all’estero un simbolo, addirittura candidato al Nobel per la pace. Non lotta con le bombe, ma con la forza delle parole e della sua figura di Gandhi africano. Il suo Movimento per la sopravvivenza del popolo Ogoni (Mosop) è una delle (poche) spine nel fianco del regime di Sani Abacha. Il pretesto per incastrare Saro-Wiwa e i 8 suoi compagni arriva nel 1994, quando i leader del Mosop vengono condannati a morte per l’uccisione di quattro persone. L’impiccagione è del 10 novembre 1995. Follie di un regime militare, si dirà. Ma cosa c’entra la Shell? «Niente», sostiene la compagnia; «Le sue impronte digitali sono dappertutto», ribatte il figlio dello scrittore. Per la prima volta in una corte verranno ascoltate le parole di Owens, fratello del leader ogoni, che accuserà il direttore della filiale nigeriana della Shell, Brian Anderson, di aver offerto il salvataggio dello scrittore dal patibolo in cambio della sua rinuncia alle rivendicazioni politiche. Si sentirà di testimoni che sarebbero stati corrotti dalla stessa Shell per propiziare la condanna a morte. Si parlerà della protezione garantita (e ben ricompensata) dalla polizia nigeriana agli impianti della multinazionale al prezzo di decine di vite umane e campagne terroristiche permanenti. O degli incontri tra i dirigenti Shell e le autorità, incluso il dittatore Abacha, per discutere la composizione del tribunale che avrebbe processato lo scrittore.Venisse condannata, la Shell rischia centinaia di milioni di euro ma soprattutto la faccia: sarebbe la prima condanna di una multinazionale per abusi dei diritti umani. Non è detto che ciò avvenga, che le accuse vengano provate in aula. Ma che questa vicenda, quattordici anni dopo, non sia stata messa a tacere, è un lampo di quella Storia che non dimentica se stessa.
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