In una mano il machete, nell’altra una radio a pile. È andata così in Ruanda. Almeno 937 mila persone trucidate nella mattanza dei cento giorni. Con la radio statale a fare da colonna sonora di un genocidio che l’Occidente non voleva vedere. «Senza armi da fuoco, machete o altri oggetti, voi avete provocato la morte di migliaia di civili innocenti». Così l’allora giudice Navanathem Pilay introdusse il verdetto nel processo internazionale ai mass-media ruandesi, per la prima volta nella storia riconosciuti colpevoli di genocidio al pari degli organizzatori e degli esecutori materiali dell’olocausto africano.«Sfruttando i media (soprattutto la radio, in un Paese dove circa 66 per cento della popolazione era analfabeta e viveva nelle zone rurali, in cui nessun altro mezzo d’informazione poteva arrivare facilmente), i responsabili del genocidio poterono rendere la carneficina una cosa di cui parlare senza vergogna». L’osservazione è dello studioso camerunense Fonju Ndemesah Fausta, che ha appena pubblicato in Italia La radio e il machete. Il ruolo dei media nel genocidio in Ruanda (Infinito edizioni, pp. 144, euro 12). «Servendosi della lingua parlata in tutto il Paese, il Kinyarwanda, e abusando del grande rispetto che i ruandesi avevano per le informazioni date dalle radio importanti, i genocidari – spiega Ndemesah Fausta – produssero un mondo dove il pensiero genocidario era la norma, sia per le vittime che per gli assassini». Nel 1994 il sistema informativo contava l’emittente governativa Radio Rwanda e nove periodici. Unica voce libera erano erano i giornali della Chiesa cattolica, Kinyamateka e Dialogue, diretti dai Padri bianchi. Era dal 1980 che padre Sylvio Sindambiwe, direttore del mensile Kinyamateka, criticava la politica del governo. Seguirono pressioni e minacce. Non tutti nella Chiesa gli stettero a fianco. Il 28 dicembre 1985 Sindambiwe lasciò l’incarico. Due anni dopo morì in un mai chiarito incidente. Le battaglie dei giornalisti cattolici però non si fermarono. Furono proprio i redattori di Kinyamateka a captare per primi le voci dell’odio. «Nell’ottobre 1988 André Sibomana, laureato in giornalismo all’Università Cattolica di Lione, fu nominato direttore. Approfittando della protezione della Chiesa cattolica – ricostruisce Fonju Ndemesah Fausta –, iniziò a criticare aspramente la politica del governo chiedendo più libertà». Poco dopo fu arrestato insieme ad altri tre giornalisti, liberati solo in seguito alle forti pressioni internazionali. Fu allora che nacque il giornale filogovernativo Kangura. Le intenzioni furono chiare da subito: «La voce che cerca di risvegliare e guidare il popolo maggioritario», c’era scritto sotto alla testata. Il «popolo maggioritario » era l’etnia hutu. Nel suo numero dell’inizio di dicembre 1990 Kangura pubblicò «I dieci comandamenti degli hutu». Il primo: «I tutsi hanno sete di sangue e di potere. Vogliono imporre la loro egemonia sulla gente del Rwanda con cannoni e spade». E l’ultimo: «Gli hutu non devono più avere pietà dei tutsi». Quattro anni dopo accadrà davvero. Intanto i seminatori di rancore decisero di compiere il passo decisivo. L’apertura di una radio che parlasse il dialetto locale. Diventerà l’oracolo della distruzione. «I giornalisti della Rtlm – spiega il ricercatore camerunense – sapendo che la maggioranza dei ruandesi era cattolica, caricarono i loro messaggi di simboli della religione cristiana». Parlavano dei tutsi come di «fratelli che non hanno imparato a costruire, che non capiscono altro che la distruzione». E poi citazioni bibliche strumentalizzate per colpire i nemici. Lo sterminio, secondo l’Onu fu «programmato » e accuratamente preparato da un gruppo organizzato di estremisti dell’etnia bantu degli hutu. Il segnale di avvio fu l’attentato del 6 aprile 1994 contro l’aereo su cui viaggiavano l’allora presidente ruandese, Juvenal Habyarimana e il suo omologo burundese Cyprien Ntaryamira. Meno di trenta minuti dopo, e prima ancora che il presidente Habyarimana – considerato dagli estremisti un hutu moderato – fosse morto si scatenarono i massacri. In soli cento giorni furono uccise, secondo le autorità locali, quasi un milione di persone. Le milizie hutu diventarono autentiche macchine da guerra. Perpetrarono in tutto il Paese razzie, stupri e massacri sistematici. La comunità internazionale, traumatizzata dalla disfatta della missione Onu dell’anno precedente in Somalia, assistette senza intervenire. La gran parte della stampa mondiale secondo l’autore de La radio e il machete affrontò la questione adoperando i soliti stereotipi dell’Africa arretrata e barbara. Solo il 16 maggio, per la prima volta sui giornali apparve la parola «genocidio». Non era merito di una intuizione giornalistica. Il giorno prima, mentre i leader delle potenze mondiali facevano a gara per non lasciarsi trascinare in un possibile Vietnam africano, Karol Wojtyla durante il Regina Coeli fu il primo a usare otto parole che cambieranno in tutto il mondo il modo di guardare agli avvenimenti di quei giorni: «Si tratta di un vero e proprio genocidio». Ma questa notizia la radio ruandese non la trasmise mai.