martedì 2 marzo 2010
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Il coprifuoco innesca i ricordi peggiori. L’ultimo risale al 1987, quando al potere c’era ancora, ma per poco, Augusto Pinochet. Ma è uno dei risvolti inevitabili quando una catastrofe come quella che ha colpito il Cile fa emergere gli estremi, il meglio e il peggio della società. A decine los saqueos, i saccheggiatori, vengono bloccati e arrestati dalla polizia. Non sono tutti criminali, non necessariamente sono poveri, eppure mossi da una psicosi di massa irrompono nei supermercati, nelle farmacie, ma anche nei negozi di abbigliamento di Conception, di Santiago, di quello che rimane di Talca, riempiono i carrelli di cibo, di detersivi, di acqua, ma anche di apparecchi radio, di televisori al plasma, di telefoni cellulari in una brutta caricatura dei bisogni primari, che è piuttosto la perfetta allegoria di una nazione ricca come il Cile che fa i conti con un sisma di spaventosa potenza – cinquanta volte più esplosivo e letale di quello di Haiti e incomparabilmente più devastante di quello dell’Aquila – e insieme con il relativamente basso numero di vittime e l’altrettanto tollerabile stima dei danni: almeno 30 miliardi di dollari, secondo la società di analisi Eqecat, il 15% del prodotto interno lordo del Paese, molto meno di quello che sarebbe accaduto altrove, in zone dove la politica antisismica non avesse predisposto un certo modo di edificare le case. E proprio qui sta la peculiarità cilena. Insieme agli episodi di saccheggio, alla devastazione che ha assommato l’onda lunga dello tsunami al sisma che distrutto interi quartieri emerge un quadro ben diverso da quello che ci è toccato di vedere a Port-au-Prince.«Lo si dica sottovoce – mi spiega Alberto Ramos della Goldman Sachs –, ma il terremoto sarà una grossa opportunità per il presidente Sebastian Piñera: le miniere di rame, l’industria che lo lavora non hanno subito danni, le esportazioni continueranno come prima. Magari sarà il peso cileno a svalutarsi e i tassi di interesse rimarranno bassi. In buona sostanza ci sono tutte le premesse, nonostante l’orrore per la perdita di vite umane e il disastro generale, perché l’economia del Paese possa tornare a crescere dopo un 2009 di recessione a meno 1,6». Piñera, che guiderà il Cile dopo vent’anni di coalizioni di centro-sinistra subentrando l’11 marzo alla presidentessa Michelle Bachelet, sa di poter contare su un’economia che è forse la più stabile di tutto il continente latianoamericano e la meglio preparata a resistere a una catastrofe come questa. Non possiamo dire se sia merito esclusivo dei discussi "Chicago Boys", gli allievi del premio Nobel Milton Friedman che negli anni Settanta introdussero in Cile il libero mercato, la deregulation e la privatizzazione del sistema pensionistico tamponando l’iperinflazione, arrestando la caduta verticale del Pil e il prosciugamento delle riserve di valuta pregiata, ma certo il mercato finanziario cileno, giudicato solidissimo a livello internazionale, sarà la leva principale che consentirà al Paese di riprendersi con relativa rapidità, così come è accaduto nel 2008 di fronte alla crisi internazionale innescata dai mutui subprime americani. Già circola uno slogan: «Minimizar los daños colaterales es cuestión de semanas». Ma si tratta probabilmente di un ottimismo forzato: 2 milioni di senza tetto, un milione e mezzo di edifici distrutti o seriamente lesionati non sono uno scherzo, nemmeno per una nazione che vanta il rispettabile reddito pro capite di 14mila dollari, più della Turchia, del Libano, del Brasile, il doppio del Perù e dell’Ecuador. E non mancano le zone d’ombra. Nella Santiago che ha resistito al più devastante dei terremoti grazie all’alto numero di palazzi edificati con criteri antisismici, ce ne sono molti che invece hanno collassato ma che sono stati costruiti negli ultimi sei anni: «È il frutto della corruzione – spiega Hilario Chavez del Santiago Daily –, il risultato dei maneggi intollerabili fra i costruttori e i politici locali. Ecco perché certi edifici si sono spezzati in due e certi altri, molto più anziani, non hanno subito danni». Ferma la condanna del presidente della Conferenza episcopale cilena Alejandro Goic: «Per guadagnare qualche peso in più siamo giunti a questa triste tragedia», ha detto puntando il dito contro gli speculatori. Mentre scende la sera a Santiago si fa la fila, di due ore a volte, per un pieno di benzina o per mezzo chilo di pane. Non ci sono saccheggi nella capitale, il governo ha inviato 15mila soldati nelle zone calde del Paese e la polizia garantisce l’ordine. Resta però il coprifuoco, l’ombra di un ricordo antico, che si sarebbe voluto dimenticare. Ma nel Cile degli estremi, dell’opulenza che diventa saccheggio e della grande stabilità economica, del più devastante dei terremoti e della più efficiente macchina dei soccorsi che l’America Latina possa mettere in campo, c’è posto anche per il fantasma di un’epoca che non c’è più.
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