giovedì 14 marzo 2013
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​A due anni dallo scoppio della rivolta anti-regime in Siria, i ribelli si presentano più divisi che mai, sia nella loro componente politica sia in quella militare. La Coalizione nazionale, che raggruppa la maggior parte degli oppositori siriani (Fratelli musulmani esiliati e riformisti firmatari della Dichiarazione di Damasco, nel 2005, ndr) e che ha ricevuto il riconoscimento, seppure con modalità diverse, della Lega degli Stati arabi, degli Stati Uniti e dell’Unione Europea, non è ancora riuscita a darsi un esecutivo.E presto potrebbe perdere anche il proprio presidente, Moaz Khatib, vittima dello stallo politico: al momento, la formazione di un governo ad interim pare una chimera, ha ammesso lo stesso Khatib. Sul campo, l’Esercito siriano libero, composto da soldati e ufficiali disertori e civili che hanno imbracciato le armi, risulta pesantemente infiltrato da brigate di miliziani jihadisti sunniti. Questi ultimi agiscono in modo autonomo e si concentrano soprattutto nei territori di confine, dove sono affiancati, secondo testimonianze incrociate, da elementi stranieri di formazione integralista. Ai combattenti tunisini, la cui presenza sul terreno siriano è assodata da tempo, si sono aggiunti quelli indiani e pachistani, come rivelato di recente dalla stampa indiana. Non mancano jihadisti egiziani, algerini, iracheni. Il gruppo di coordinamento più consistente è quello dei Jabhat al-Nusra li ahl al-Sham (Fronte dei sostenitori della gente della Siria), affine per strategia e impronta ideologica ai qaedisti yemeniti, iracheni, magrebini di Ansar al-Sharia (Seguaci della via). Da qui l’imbarazzo operativo occidentale: togliere l’embargo militare ai ribelli potrebbe significare armare la crème dell’islam integralista.
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